L’intimità dopo la lunga solitudine, la gioia improvvisa, misero alla prova sia la stabilità di Shevek sia quella di Takver. Nelle prime decadi egli ebbe grandi oscillazioni dalla spensieratezza alla angoscia; ella ebbe scatti di collera. Entrambi erano ipersensibili e inesperti. La tensione non durò, a mano a mano che divennero esperti l’uno dell’altra. La loro fame sessuale continuò come diletto appassionato, il loro desiderio di unione veniva quotidianamente rinnovato perché veniva quotidianamente esaudito.
Era ormai chiaro a Shevek, e gli sarebbe parsa follia pensare diversamente, che i suoi anni di disperazione in quella città erano parte della sua grande felicità presente, poiché l’avevano portato ad essa, l’avevano preparato ad essa. Ogni cosa che gli era successa faceva parte di ciò che gli stava succedendo ora. Takver non vedeva una simile oscura concatenazione di effetto/causa/effetto, ma Takver non era un fisico temporale. Ella vedeva il tempo in modo ingenuo, come una strada stesa. Tu avanzavi, e arrivavi in qualche parte. Se eri fortunato, arrivavi in qualche parte che valeva la pena di andarci.
Ma quando Shevek prese quella metafora e la riformulò nei propri termini, spiegando che, a meno che il passato e il futuro non divenissero parte del presente mediante il ricordo e l’intenzione, non c’era, in termini umani, alcuna strada, alcun punto dove andare, ella annuì prima ch’egli fosse giunto a metà. — Esattamente — disse. — Questo è ciò che ho fatto per gli scorsi quattro anni. Non è tutta fortuna. Soltanto una parte.
Takver aveva ventitré anni: uno meno di Shevek. Era cresciuta in una comunità agricola, Valle Rotonda, nel Nordest. Era un posto isolato, e prima di giungere all’Istituto Regionale Settentrionale, ella aveva lavorato più duramente del normale, per un giovane anarresiano. Non c’erano abbastanza persone a Valle Rotonda per fare i lavori che occorrevano, ma non era una comunità abbastanza grande, o abbastanza produttiva nell’economia generale, per ottenere la priorità dai calcolatori della Divisione del Lavoro. Doveva badare a se stessa. A otto anni, Takver toglieva pagliuzze e sassolini dal grano di holum al mulino, tre ore al giorno, dopo tre ore di scuola. Poca della sua istruzione pratica di bambina era rivolta all’arricchimento personale: era solo parte dello sforzo della comunità per sopravvivere. Nelle stagioni della semina e del raccolto, ogni persona superiore ai dieci anni e inferiore ai sessanta lavorava nei campi, tutto il giorno. A quindici anni era stata incaricata di coordinare i carichi di lavoro sui quattrocento campi coltivati dalla comunità, e aveva assistito il dietetista nel refettorio della cittadina. Non c’era niente d’inconsueto in tutto ciò, e Takver non vi dava molto peso, ma inevitabilmente queste esperienze avevano plasmato certi elementi del suo carattere e delle sue opinioni. Shevek era lieto di avere fatto la propria parte di kleggich, di lavoro duro, perché Takver disprezzava la gente che cercava di evitare la fatica fisica. — Guarda Tinan — diceva, — che piange e si lamenta perché l’hanno comandato per quattro decadi al raccolto delle radici di holum. È così delicato che potresti crederlo un uovo di pesce! Avrà mai toccato il letame? — Takver non era molto caritatevole, e aveva un carattere facile ad andare in collera.
Ella aveva studiato biologia all’Istituto Regionale Settentrionale, con sufficiente distinzione, cosicché aveva deciso di recarsi all’istituto Centrale per approfondire gli studi. Dopo un anno, le era stato chiesto di unirsi a un nuovo gruppo che stava allestendo un laboratorio per studiare tecniche che permettessero di aumentare e migliorare le riserve di pesce commestibile dei tre oceani di Anarres. Quando la gente le chiedeva che lavoro facesse, ella rispondeva: — Sono una genetista dei pesci. — Il lavoro le piaceva; esso combinava due cose a cui attribuiva molto valore: l’accurata, documentata ricerca, e uno scopo specifico di aumento o miglioramento. Lontana da un simile lavoro, ella non si sarebbe sentita soddisfatta. Ma il lavoro non esauriva i suoi interessi. Gran parte di ciò che passava per la mente e nello spirito di Takver aveva poco a che vedere con la genètica dei pesci.
Il suo interesse per i paesaggi e le creature viventi era appassionato. Questo interesse, che limitativamente si poteva chiamare «amore per la natura», pareva a Shevek qualcosa di assai più ampio che il semplice amore. Ci sono delle anime, egli pensava, il cui cordone ombelicale non è mai stato reciso. Esse non si sono mai svezzate dall’universo. Esse non concepiscono la morte come un nemico; attendono il giorno in cui si disferanno per ritornare nell’humus. Era strano vedere Takver che prendeva una foglia in mano, o anche una pietra. Ella diveniva un’estensione della foglia, e la foglia un’estensione di lei.
Ella mostrò a Shevek le vasche di acqua marina, al laboratorio di ricerca: cinquanta e più specie di pesci, grandi e piccoli, grigi o vivaci, eleganti e grotteschi. Egli ne fu affascinato e anche un po’ intimorito.
I tre oceani di Anarres erano altrettanto pieni di vita quanto la sua terraferma ne era priva. I mari erano isolati tra loro da vari milioni di anni, e le forme di vita avevano seguito processi indipendenti di evoluzione. La loro varietà era stupefacente. Non era mai venuto in mente a Shevek che la vita potesse proliferare così selvaggiamente, in modo così esuberante, che, anzi, forse l’esuberanza fosse la qualità essenziale della vita.
Sulla terraferma, le piante se la cavavano abbastanza bene, nella loro maniera rada e spinosa, ma gli animali che avevano provato a respirare aria avevano rinunciato quasi tutti al progetto quando il clima del pianeta era entrato in un’èra millenaria di polvere e siccità. Sopravvivevano i batteri, dei quali molti erano litofagi, e qualche centinaia di specie di vermi e crostacei.
L’uomo si era inserito con attenzione, e con rischio, in questa ristretta ecologia. Se avesse pescato, ma non troppo avidamente, e se avesse coltivato, usando soprattutto come concime rifiuti organici, si sarebbe potuto inserire. Ma non poteva inserire altro. Non c’era erba per erbivori. Non c’erano erbivori per i carnivori. Non c’erano insetti per fecondare le piante con fiori; gli alberi da frutto importati venivano tutti fertilizzati a mano. Nessun animale venne importato da Urras, per non mettere a repentaglio il delicato equilibrio della vita. Giunsero soltanto i Coloni, e così ben puliti esternamente e internamente che portarono con sé solamente una minima parte della loro fauna e flora personale. Neppure la pulce era riuscita ad arrivare su Anarres.
— Amo la biologia marina — Takver disse a Shevek, davanti alle vasche dei pesci, — perché è così complessa: una vera rete. Questo pesce mangia quel pesce che mangia pesciolini neonati che mangiano ciliati che mangiano batteri e qui ritorni al punto di partenza. Sulla terraferma ci sono soltanto tre gruppi, tutti non-cordati… se non conti l’uomo. È una strana situazione, biologicamente parlando. Noi anarresiani siamo isolati in modo innaturale. Sul Vecchio Pianeta ci sono diciotto gruppi di animali terrestri; ci sono alcune classi, come quella degli insetti, che contengono un numero così ampio di specie che non sono mai state contate tutte, e alcune di queste specie hanno popolazioni di miliardi di individui. Prova a pensarci: dovunque tu guardi, animali, altre creature, che condividono la terra e l’aria con te. Ti potresti sentire tanto più una parte. — Il suo sguardo seguì il movimento di un piccolo pesce azzurrino, entro l’acqua semibuia della vasca. Shevek, attento, seguì la traiettoria del pesce e quella dello sguardo di lei. Rimase fra le vasche per vario tempo, e spesso in seguito ritornò con lei al laboratorio e agli acquari, sottomettendo la sua arroganza di fisico a quelle piccole e strane vite, all’esistenza di esseri per i quali il presente è eterno, esseri che non spiegano se stessi e che non devono neppure giustificare all’uomo le loro vie.