La maggior parte degli anarresiani lavorava da cinque a sette ore al giorno, con da due a quattro giorni di riposo ogni decade. I particolari riguardanti la regolarità, la puntualità, i giorni di riposo e così via venivano decisi, tra l’individuo e la sua squadra di lavoro, o gruppo, o federativa di coordinamento, al livello a cui si raggiungeva meglio la cooperazione e l’efficienza. Takver conduceva da sola i suoi progetti di ricerca, ma il lavoro e i pesci avevano le proprie esigenze indifferibili: ella passava da due a dieci ore al giorno nel laboratorio, senza giorni di riposo. Shevek aveva adesso due incarichi d’insegnamento: un corso di matematica avanzata in un centro di apprendimento, e un altro all’Istituto. Entrambi i corsi erano al mattino, ed egli tornava alla stanza a mezzogiorno. Di solito Takver non era ancora rientrata. L’edificio era silenzioso. La luce del sole non aveva ancora raggiunto la doppia finestra che guardava a sud e ad ovest sulla città e il piano; la stanza era fredda e ombreggiata. Le delicate, concentriche sculture mobili appese a diversi livelli in alto si muovevano con la precisione introversa, il silenzio, il mistero degli organi del corpo e dei processi della mente raziocinante. Shevek si sedeva al tavolo sotto le finestre e cominciava a lavorare, a leggere o prendere appunti e fare calcoli. Gradualmente la luce del sole faceva il suo ingresso, scorreva sui fogli posati sul tavolo, sulle sue mani posate sui fogli, e riempiva la stanza di luminosità. Ed egli lavorava. Le false partenze e le perdite di tempo si rivelarono essere basi, fondamenta, gettate nel buio, ma gettate bene. Su di queste, metodicamente e con attenzione, ma con una destrezza e una sicurezza che non gli pareva qualcosa di suo, bensì una conoscenza che si servisse di lui per operare, che lo usasse come veicolo, egli edificò la magnifica, robusta struttura dei Principi della Simultaneità.
Takver, come ogni uomo o donna che accetta la vicinanza dello spirito creatore, non sempre lo trovava facile. Sebbene la sua esistenza fosse necessaria a Shevek, la sua presenza concreta poteva essere una distrazione. Non voleva tornare a casa troppo presto, poiché egli spesso cessava di lavorare quando lei tornava a casa, e le pareva che questo fosse sbagliato. Più avanti nel tempo, quando sarebbero stati anziani e sazi, egli avrebbe potuto ignorarla, ma a ventiquattr’anni non poteva. Pertanto Takver regolò i suoi compiti in laboratorio in modo da non arrivare a casa fino al pomeriggio avanzato. Ma neanche questo era perfetto, poiché egli aveva bisogno di attenzioni. Nei giorni in cui non aveva lezione, all’ora di arrivo di Takver egli poteva essere a tavolino da sei, otto ore, senza interruzione. Quando si alzava, barcollava dalla stanchezza, gli tremavano le mani e non era del tutto coerente. Il modo con cui lo spirito creatore usa i propri veicoli è assai rude; esso li consuma, poi li scarta e si procura un nuovo modello. Per Takver, invece, non ci potevano essere sostituzioni, e quando vedeva fino a qual punto Shevek fosse usato, ella protestava. Avrebbe potuto gridare, come una volta aveva fatto il marito di Odo, Asieo: «Per l’amor di Dio, donna! Non puoi servire la Verità un poco alla volta?» salvo il particolare che la «donna» era lei, e che non aveva dimestichezza con Dio.
Allora si mettevano a parlare, uscivano a passeggiare o si recavano ai bagni, e poi a pranzare alla mensa dell’Istituto. Dopo il pranzo c’erano riunioni, o un concerto, o si incontravano con gli amici: Bedap e Salas e le loro conoscenze, Desar e altri dell’Istituto, i colleghi e gli amici di Takver. Ma le riunioni e gli amici erano periferici, per loro. Non era loro necessaria né la partecipazione sociale né quella semplicemente socievole; il loro legame era sufficiente, e non potevano nascondere che lo fosse. Tuttavia la cosa non pareva offendere gli altri. Anzi, al contrario, Bedap, Salas, Desar e gli altri venivano a loro come gli assetati alla fontana. Gli altri erano periferici per loro, ma essi erano centrali per gli altri. Non che facessero molto; non erano più amichevoli di tanti altri, né erano conversatori più brillanti; eppure i loro amici li amavano, contavano su di loro, e continuavano a portare loro regali… le piccole offerte che circolavano tra quelle persone, che possedevano nulla e tutto: una sciarpa fatta all’uncinetto, un pezzo di granito picchiettato di granati rosa, un vaso fatto a mano alla bottega della Federativa dei Vasai, una poesia sull’amore, una serie di bottoni di legno scolpiti a mano, una conchiglia del Mare di Sorruba. Davano il regalo a Takver, dicendo: — Ecco, a Shevek potrebbe piacere come fermacarte — oppure a Shevek, dicendo: — Ecco, a Takver potrebbe piacere questo colore. — Nel donare cercavano di condividere ciò che si condividevano Shevek e Takver, di celebrare, di lodare.
Fu una lunga estate, calda e luminosa: l’estate del 160° anno dell’Insediamento di Anarres. Abbondanti piogge nella primavera avevano inverdito i Piani di Abbenay e portato via la polvere, cosicché l’aria era straordinariamente chiara; di giorno il sole era caldo, e di notte le stelle splendevano fitte. Quando la Luna era in cielo si potevano distinguere i profili delle coste e dei continenti, sotto i ricci bianchissimi delle sue nubi.
— Perché ha un aspetto così bello? — disse Takver, stesa accanto a Shevek sotto la coperta arancione, con la luce spenta. Su di loro erano sospese, oscuramente, le Occupazioni di Spazi Disabitati; fuori della finestra era sospesa la Luna, brillante. — Pur sapendo che è un pianeta come questo, con solamente un clima migliore e degli abitanti peggiori, pur sapendo che sono tutti proprietaristi, e che combattono guerre, e fanno leggi, e mangiano mentre altri muoiono di fame, e comunque invecchiano tutti e incontrano le loro sfortune, e hanno i reumatismi e i calli ai piedi esattamente come la gente di qui… pur sapendo tutto questo, perché sembra così felice, come se la vita lassù dovesse essere tanto gioiosa? Io non posso guardare quella luminosità e pensare che ci possa vivere qualche orribile ometto con le maniche sudice e la mente atrofizzata come Sabul; non posso, e basta.
Le loro braccia e i loro petti nudi erano illuminati dalla Luna. La fine, sottile peluria sul viso di Takver componeva un’aureola che le offuscava í lineamenti; i capelli e le ombre erano neri. Shevek le toccò il braccio argenteo con la propria argentea mano, meravigliandosi al tepore del contatto in quella sera fresca.
— Quando puoi vedere una cosa nella sua totalità — egli disse, — ti pare sempre bellissima. I pianeti, le vite… Ma da vicino, un mondo è tutto terra e rocce. E, da un giorno a un altro giorno, la vita è un lavoro duro, ti stanchi, ne perdi la forma generale. Hai bisogno della distanza, di un intervallo. Il modo per vedere quanto sia bella la terra, è vederla dalla Luna. Il modo per vedere quanto sia bella la vita, è vederla dalla posizione elevata della morte.
— Questo è giusto per Urras. Teniamocene lontani, e lasciamo che resti la Luna… io non la voglio! Ma non intendo salire su una tomba e abbassare gli occhi sulla vita e dire: «Oh, che bella!». Io voglio vederla intera da in mezzo ad essa, qui, ora. Non me ne importa un fischio dell’eternità.
— Non ha niente a che vedere con l’eternità — disse Shevek, sorridendo: un uomo magro e irsuto di argento e di ombra. — La sola cosa che devi fare, per vedere la vita nella sua totalità, è di guardarla in quanto mortale. Io morirò; tu morirai; altrimenti, come potremmo amarci diversamente? Il sole sta ogni momento per scoppiare, altrimenti non potrebbe continuare a brillare.