— Ah! i tuoi discorsi! la tua maledetta filosofia!
— Discorsi? Non sono discorsi. Non è la ragione. È il tocco della mano. Io tocco la totalità, la stringo. Qual è la luce della Luna, qual è Takver? Come posso temere la morte? Se la stringo, se stringo nella mia mano la luce…
— Non fare il proprietarista — mormorò Takver.
— Cuore mio, non piangere.
— Non piango. Sei tu, che piangi. Sono le tue lacrime.
— Ho freddo. La luce della Luna è fredda.
— Stenditi. — Un grande brivido gli percorse tutto il corpo quando lei lo strinse fra le braccia.
— Ho paura, Takver — bisbigliò.
— Fratello, anima cara, taci.
Dormirono l’uno fra le braccia dell’altra quella notte, molte notti.
CAPITOLO 7
Shevek trovò una lettera nella tasca del nuovo soprabito bordato di pelliccia che aveva ordinato per l’inverno al negozio della via degli incubi. Non aveva idea di come la lettera ci fosse arrivata. Certamente non era nella posta che gli veniva recapitata tre volte al giorno, e che consisteva interamente di manoscritti ed estratti dei fisici di tutta Urras, di inviti a ricevimenti, di rozzi messaggi scritti da bambini delle scuole. Questa era invece un sottile foglio di carta incollato su se stesso, senza busta; non portava francobollo né la stampigliatura di una delle tre compagnie di recapito concorrenti.
La aprì, con una vaga apprensione, e lesse: «Se sei un Anarchico perché lavori con il sistema del potere tradendo il tuo Mondo e la Speranza Odoniana o sei qui per portarci questa Speranza? Sofferenti per l’ingiustizia e la repressione noi guardiamo al Mondo Gemello la luce di libertà nella notte buia. Unisciti a noi tuoi fratelli!» Non c’era firma, non c’era indirizzo.
La lettera agitò Shevek tanto moralmente quanto intellettualmente, dandogli una scossa che non era di sorpresa, bensì di una sorta di panico. Sapeva che c’erano, ma dove? Non ne aveva incontrato, non ne aveva visto nessuno, non aveva mai incontrato un povero. Aveva permesso che costruissero un muro intorno a lui, e non se n’era neppure accorto. Aveva accettato il riparo, proprio come un proprietarista. Si era lasciato comprare… come aveva detto Chifoilisk.
Ma non sapeva come abbattere il muro. E se lo avesse abbattuto, dove andare, poi? Il panico si serrò su di lui ancora più soffocantemente. A chi potersi rivolgere? Era circondato da ogni parte dai sorrisi dei ricchi.
— Vorrei parlarti, Efor.
— Certo, signore. Mi scusi, signore, faccio posto posare questa roba.
Il servitore si destreggiò abilmente con il pesante vassoio, tolse i copripiatti, versò il cioccolato amaro nella tazza, lo fece alzare schiumeggiando fino all’orlo, senza farlo traboccare e senza spandere gocce. Era chiaro ch’egli amava il rito della colazione del mattino e la propria abilità nell’officiarlo, ed era altrettanto chiaro che desiderava non subisse inopinate interruzioni. Parlava quasi sempre in modo molto chiaro, in iotico, ma ora, non appena Shevek gli aveva manifestato il desiderio di parlargli, Efor era scivolato nel locale dialetto cittadino. Shevek aveva un poco imparato a seguirlo; le trasformazioni della pronuncia risultavano coerenti a una loro logica, una volta imparata la regola, ma le elisioni lo lasciavano brancolante nel buio. Metà della frase veniva omessa. Era come un linguaggio cifrato, si disse: come se i «Nioti», come essi stessi si definivano, non volessero farsi capire dagli estranei.
Il servitore rimase fermo a lato della tavola, attendendo che Shevek si servisse. Egli sapeva — fin dalla prima settimana aveva imparato simpatie e antipatie di Shevek — che Shevek non voleva che gli porgesse la sedia, né essere servito mentre mangiava. La posa eretta e attenta sarebbe stata più che sufficiente a scoraggiare qualsiasi intenzione di instaurare un dialogo privo di formalità.
— Vuoi sederti, Efor?
— Se lei vuole, signore — rispose l’uomo. Mosse la sedia di mezzo centimetro, ma non si sedette.
— È appunto questa la cosa di cui vorrei parlarti. Sai che non amo darti ordini.
— Cerco fare cose come vuole signore senza fastidio di ordinare.
— Certo… non mi riferivo a questo. Sai, al mio paese nessuno dà ordini.
— Così credo di avere sentito dire, signore.
— Ecco, desidero conoscerti come mio uguale, mio fratello. Tu sei l’unico che io conosca, qui, che non sia ricco… non sia uno dei padroni. Desidero parlare con te, desidero sapere della tua vita…
S’interruppe, disperato, vedendo il disprezzo sul volto rugoso di Efor. Aveva fatto tutti gli errori possibili. Efor l’aveva preso per uno sciocco, un paternalista, un curioso.
Lasciò cadere le mani sul tavolo in segno di disperazione e disse: — Oh, al diavolo, scusami, Efor! Non riesco a dire quello che volevo dire. Ti prego di dimenticarlo.
— Come dice lei, signore. — Efor si ritirò.
Così finiva la cosa. Le «classi non possidenti» rimanevano lontane da lui come quando ne aveva letto nei corsi di storia, all’Istituto Regionale Settentrionale.
Intanto, aveva promesso agli Oiie di passare una settimana con loro, tra gli esami invernali e primaverili.
Oiie l’aveva invitato a cena varie volte, dal giorno della sua prima visita, e sempre in modo rigido, come per obbedire a un dovere d’ospitalità, o forse a un ordine del governo. Nella sua casa, comunque, anche se non abbassava mai la guardia nei riguardi di Shevek, Oiie era sinceramente amichevole. Con la sua seconda visita, i due bambini avevano deciso che Shevek era un vecchio amico, e la loro sicurezza della reazione di Shevek aveva ovviamente messo nell’imbarazzo il padre. Lo rendeva perplesso; egli non poteva realmente approvarla; ma non poteva dire che fosse ingiustificata. Shevek si comportava con loro come un vecchio amico, come un fratello maggiore. Essi lo ammiravano, e il più giovane, Ini, giunse ad amarlo con vera passione. Shevek era gentile, serio, onesto, e raccontava delle bellissime storie sulla Luna; ma c’era anche dell’altro. Egli rappresentava qualcosa, per il bambino, che Ini non sapeva descrivere. Anche molto più tardi nella sua vita, che venne profondamente e oscuramente influenzata da quel fascino infantile, Ini non trovò parole per esso, ma soltanto parole che conservavano un’eco di quel fascino: la parola viaggiatore, la parola esule.
L’unica forte nevicata dell’inverno cadde quella settimana. Shevek non aveva mai visto una nevicata più alta di un paio di centimetri. La bizzarria, la semplice quantità della tempesta lo esilarò. Lo dilettò il suo eccesso. Era troppo bianca, troppo fredda, silenziosa e indifferente per poter essere definita escrementale anche dal più sincero Odoniano; volerla vedere in modo diverso da una innocente magnificenza sarebbe stata soltanto piccolezza d’animo. Non appena il cielo si schiarì, egli uscì nella neve con i ragazzi, che la amavano esattamente quanto lui. Corsero per l’ampio giardino della casa di Oiie, si gettarono palle di neve, costruirono gallerie, castelli e fortezze di neve.
Sewa Oiie era ferma dietro la finestra, insieme con la cognata Vea, e osservava i bambini, l’uomo e la piccola lontra intenti a giocare. La lontra aveva trovato uno scivolo su una parete del castello di neve e continuava a scivolare giù sulla pancia e a risalire eccitata. Le guance dei ragazzi erano roventi. L’uomo, con i capelli lunghi e disordinati, color sabbia, legati sulla nuca con un cordino e le orecchie rosse per il freddo, eseguiva con energia operazioni di scavo. — Non qui! — Scava qui! — Dov’è la paletta? — Ho del ghiaccio in tasca! — le voci acute dei bambini echeggiavano in continuazione.
— Ecco il nostro forestiero — disse Sewa, sorridendo.
— Il più grande fisico vivente — disse la cognata. — Che buffo.
Quando egli entrò, soffiando e pestando i piedi per togliersi la neve dalle scarpe e respirando con quel fresco, gelido vigore e quel senso di salute che soltanto le persone appena uscite dalla neve posseggono, venne presentato alla cognata. Tese la mano grande e dura, fredda, e abbassò su Vea uno sguardo gentile. — Lei è la sorella di Demaere? — disse. — Sì, gli assomiglia. — E questo commento, che se fosse provenuto da chiunque altro sarebbe parso scipito a Vea, le piacque immensamente. «È un uomo» ella continuò a pensare quel pomeriggio, «un vero uomo. Che cosa avrà mai?»