Vea Doem Oiie era il suo nome, all’uso iotico; suo marito Doem era a capo di un grosso cartello industriale e viaggiava molto, passando all’estero una buona metà dell’anno come rappresentante d’affari del governo. Così venne spiegato a Shevek, mentre egli la osservava. In lei la sottigliezza di Demaere Oiie, il colorito pallido e gli occhi neri e ovali si erano trasformati in bellezza. Il petto, le spalle e le braccia erano tondi, soffici, e molto bianchi. Shevek sedette accanto a lei a tavola per il pranzo. Continuò a fissarle il petto nudo, tenuto sollevato dal corpetto rigido. L’idea di andarsene così seminuda in quella gelida temperatura era bizzarra, ma bizzarra come la neve, e anche i piccoli seni avevano un candore innocente, come la neve. La curva della sua nuca sfumava senza scosse nella curva della testa orgogliosa, rasata, delicata.
È molto attraente, Shevek informò se stesso. È come i letti di qui: soffice. Innaturale, però. Perché parla con tanta affettazione?
Egli si afferrò alla sua voce sottile e ai suoi modi affettati come a una pagliuzza in mezzo all’oceano, e non se ne accorse: non si accorse di affogare. Vea tornava a Nio Esseia col treno della sera: era venuta soltanto a passare il pomeriggio, ed egli non l’avrebbe vista più.
Oiie aveva il raffreddore, Sewa aveva da fare con i bambini. — Shevek, pensa che potrebbe accompagnare Vea alla stazione?
— Santo Dio, Demaere! Non costringere quel poveretto a venirmi a proteggere! Credi che ci siano i lupi per la strada? O pensi che i Mingrad selvaggi faranno un’incursione nell’abitato e mi rapiranno per i loro harem? Mi troveranno sulla soglia dell’ufficio del capostazione, domattina, con una lacrima congelata all’angolo dell’occhio e le minuscole, rigide manine strette a un mazzolino di fiori appassiti? Oh, questo non mi dispiacerebbe! — Sul chiacchiericcio scoppiettante e tintinnante, la risata di Vea s’infranse come un’onda: un’onda cupa, levigata, poderosa, che spazzava via ogni cosa e lasciava vuota la sabbia. Non rideva entro di sé, ma di sé, la risata nera, che spazza via le parole.
Shevek si infilò il cappotto in corridoio e l’attese alla porta. Camminarono in silenzio per un isolato. La neve scricchiolava e si schiacciava sotto i loro piedi.
— Davvero, lei è fin troppo cortese per…
— Per cosa?
— Per un anarchico — disse lei, nella sua voce sottile e strascicata con affettazione (era la stessa intonazione che veniva usata da Pae; e da Oiie quando era all’Università). — È un disappunto. Pensavo che fosse rozzo e pericoloso.
— Lo sono.
Lei lo guardò dalla coda dell’occhio. Aveva in testa uno scialle di colore rosso, legato sulla nuca; i suoi occhi risaltavano neri e luminosi su quel colore vivace e sul biancore della neve che li circondava.
— Ma ora mi accompagna in modo molto pacifico alla stazione, dottor Shevek.
— Shevek — disse lui, in tono blando. — Senza «dottore».
— È questo l’intero suo nome… nome e cognome?
Egli annuì, sorridendo. Si sentiva bene, vigoroso, gli piaceva l’aria luminosa, il calore del cappotto ben fatto che indossava, la bellezza della donna al suo fianco. Né preoccupazioni né pensieri pesanti potevano fare presa su di lui, oggi.
— È vero che ricevete il nome da un calcolatore?
— Sì.
— Che squallore, ricevere il nome da una macchina!
— Perché «squallore»?
— È una cosa così meccanica, così impersonale.
— Ma che cosa ci può essere, di più personale che un nome che non è portato da nessun’altra persona vivente?
— Nessun’altra persona? Lei è l’unico Shevek?
— Finché vivo. Ce ne sono stati altri, prima di me.
— Parenti, intende dire?
— Non diamo molta importanza alle parentele; siamo tutti parenti, capisce? Non so chi siano, salvo una, nei primi anni dell’Insediamento. Una donna, che ha progettato un tipo di cuscinetto che viene usato nei macchinari pesanti: lo chiamano ancora oggi un «shevek». — Sorrise di nuovo, più ampiamente. — Ecco una buona immortalità!
Vea scosse il capo. — Santo Dio! — esclamò. — Come fate a distinguere gli uomini dalle donne?
— Be’, abbiamo scoperto alcuni metodi…
Dopo un momento, giunse la sua risata morbida e pesante. Vea si passò il dorso della mano sugli occhi, che tendevano a lacrimare nell’aria fredda. — Sì, davvero, lei è rozzo! … Hanno preso tutti dei nomi prefabbricati, allora, e hanno imparato una lingua prefabbricata… tutto nuovo?
— I Coloni di Anarres? Sì. Erano persone romantiche, credo.
— E lei no?
— No. Oggi siamo tutti molto pragmatici.
— Si può essere entrambe le cose — disse lei.
Shevek non si era aspettato alcuna sottigliezza di mente da lei. — Sì, è vero — disse.
— Che ci può essere, di più romantico della sua venuta qui da noi, tutto solo, senza una moneta in tasca, a perorare per il suo popolo?
— E a venire guastato dal lusso mentre sono qui.
— Lusso? In una camera dell’Università? Santo Dio! Poverino! Non l’hanno portata in nessun posto decente?
— Vari posti, ma tutti uguali. Mi piacerebbe conoscere meglio Nio Esseia. Ho visto soltanto l’esterno della città… la carta del pacchetto. — Usò quella frase perché era rimasto affascinato fin dall’inizio dall’abitudine urrasiana di avvolgere ogni cosa in carta pulita, allegra, o plastica, o cartone o stagnola. Roba di bucato, libri, verdura, vestiti, medicine, ogni cosa arrivava dentro strati e strati di avvolgimenti. Perfino i pacchi di carta venivano avvolti in vari strati di carta. Nessuna cosa doveva entrare in contatto con un’altra. Egli aveva cominciato a pensare che anch’egli era stato impacchettato con cura.
— Lo so. L’hanno fatta andare al Museo Storico, e poi la visita del Monumento Dobunnae, e ascoltare un’orazione al Senato! — Egli rise, poiché quello era stato esattamente l’itinerario, un giorno della precedente estate. — Lo so! Sono così sciocchi con i forestieri. Ci penserò io a farle vedere la vera Nio!
— Mi piacerebbe.
— Conosco ogni tipo di gente meravigliosa. Io faccio collezione di persone. Qui lei è intrappolato tra tutti questi professori e politicanti ammuffiti… — E continuò a raccontargliela su questo tono. Egli traeva piacere dalle chiacchiere scombussolate di Vea, esattamente come dal sole e dalla neve.
Giunsero alla piccola stazione di Amoeno. Ella aveva già il biglietto; mancava poco all’arrivo del treno.
— Non resti qui ad aspettare, gelerà.
Egli non rispose, e si limitò a rimanere lì fermo, massiccio nel cappotto bordato di pelliccia, e a fissarla amabilmente.
Ella abbassò gli occhi su un polsino del cappotto e scostò un fiocco di neve dal ricamo.
— Lei ha moglie, Shevek?
— No.
— Non ha famiglia?
— Oh… sì. La compagna, le nostre figlie. Mi scusi, pensavo a qualcosa di diverso. Una «moglie», vede, mi fa pensare a qualcosa che esiste solo su Urras.
— Che cos’è una «compagna»? — Lo fissò maliziosamente negli occhi.
— Penso che voi direste una moglie.
— Perché non è venuta con lei?
— Non desiderava venire; e la figlia più piccola ha solo un anno… no, due, adesso. Inoltre… — Esitò.
— Perché non desiderava venire?
— Be’, là ha del lavoro da fare, qui no. Se avessi saputo quanto le sarebbero piaciute tante cose che avete qui, le avrei chiesto di venire. Ma non gliel’ho chiesto. C’è la questione della sicurezza, sa.
— La sicurezza qui?
Egli esitò ancora, e infine disse: — Anche quando tornerò a casa.
— Che cosa le succederà? — chiese Vea, ad occhi spalancati. Il treno stava risalendo la collina, appena fuori città.