— Oh, forse nulla. Ma alcuni mi considerano un traditore. Perché cerco di fare amicizia con Urras, vede. Potrebbero fare qualcosa quando tornerò a casa. Non voglio che succeda a lei e ai bambini. Ne abbiamo provato un po’, prima che partissi. Abbastanza.
— Sarà in pericolo di vita, vuol dire?
Si chinò verso di lei per sentire, poiché il treno stava entrando in stazione con un clangore di ruote e respingenti. — Non so — disse, sorridendo. — Sa che i nostri treni sono molto simili a questi? Un buon progetto non ha bisogno di cambiamenti. — Andò con lei a un vagone di prima classe. Poiché ella non apriva lo sportello, lo aprì lui. Infilò la testa nello scompartimento, quando Vea fu entrata, guardandosi intorno. — All’interno non sono affatto uguali, però! Questo è tutto privato… per lei sola?
— Oh, certo. Detesto la seconda classe. Uomini che masticano gomma di maera e sputano in terra. La gente mastica maera, su Anarres? No, certamente no. Oh, ci sono così tante cose che vorrei sapere di lei e del suo paese!
— Mi piace parlarne, ma nessuno me le chiede.
— Ma allora incontriamoci davvero e parliamone! La prossima volta che sarà a Nio, mi telefonerà? Promessa.
— Lo prometto — rispose lui, sorridendo.
— Ottimo! So che lei non rompe le promesse. Non so ancora niente di lei, eccetto questo. Questo posso vederlo. Arrivederci, Shevek. — Posò la mano guantata sulla sua per un istante, mentre egli teneva ancora aperto lo sportello. La locomotiva diede il segnale a due note della partenza; egli chiuse lo sportello e rimase a guardare il treno che si allontanava, e il viso di Vea simile a un guizzo di bianco e di rosso al finestrino.
Ritornò dagli Oiie con lo spirito molto allegro, e fece a palle di neve con Ini fino a quando non scese il buio.
Il giornale popolare raggiungeva, a causa dell’eccitazione, i caratteri tipografici più grossi. L’ortografia e la grammatica si erano perse per strada; si leggeva come le frasi di Efor: «Con ieri notte ribelli tengono tutto l’occidente di Meskti e costringono in ritirata l’esercito…». Era il tempo dei verbi Nioti: passato e futuro pigiati in un unico presente, fortemente carico e instabile.
Shevek lesse i giornali e cercò nell’Enciclopedia del Consiglio dei Governi Mondiali una descrizione del Benbili. La nazione era formalmente una democrazia parlamentare, di fatto una dittatura militare, in mano a generali. Era un vasto paese dell’emisfero occidentale, montagne e savane aride, spopolato, povero. «Sarei dovuto andare nel Benbili» Shevek pensò, poiché l’idea del paese lo attirava; immaginava pianure pallide, il vento che soffiava. La notizia l’aveva scosso in modo strano. Egli ascoltava i bollettini alla radio, che in passato non aveva quasi mai acceso dopo avere scoperto che la sua funzione fondamentale era quella di fare pubblicità a cose in vendita. I rapporti della radio, e quelli del telex ufficiale nelle stanze di riunione, erano brevi e asciutti: bizzarro contrasto con i giornali popolari, che gridavano Rivoluzione! in ogni pagina.
Il generale Havevert, il Presidente, era riparato indenne nel suo famoso aereo blindato, ma alcuni generali di rango inferiore erano stati presi ed evirati, punizione che i Benbili preferivano tradizionalmente all’esecuzione. L’armata in ritirata bruciava i campi e le città del proprio popolo mentre passava. Guerriglieri partigiani tendevano agguati ai militari. I rivoluzionari di Meskti, la capitale, aprirono le prigioni, dando amnistia a tutti i carcerati. Leggendo questo, Shevek sentì il cuore balzargli in petto. C’era speranza, c’era ancora speranza… Seguì le notizie della lontana rivoluzione con crescente interesse. Il quarto giorno, osservando la trasmissione di un dibattito al Consiglio dei Governi Mondiali, vide l’ambasciatore iotico al CGM annunciare che l’A-Io, muovendosi a sostegno del governo democratico del Benbili, inviava rinforzi armati al Presidente Generale Havevert.
I rivoluzionari Benbili, in gran parte, non erano neppure armati. Le truppe iotiche sarebbero arrivate con cannoni, carri armati, aerei, bombe. Shevek lesse sui giornali la descrizione del loro equipaggiamento e si sentì male allo stomaco.
Si sentiva male ed era incollerito e non aveva nessuno a cui parlare. Pae era fuori discussione. Atro era un ardente militarista. Oiie era un uomo probo, ma le sue insicurezze private, le sue ansie di possidente, lo portavano ad afferrarsi a concetti rigidi di legge e di ordine. Poteva accettare la sua simpatia personale per Shevek soltanto rifiutando di ammettere che Shevek fosse un anarchico. La società Odoniana si definiva anarchica, egli diceva, ma in effetti erano semplicemente dei populisti primitivi il cui ordinamento sociale funzionava senza un visibile governo perché erano pochi e perché non avevano altri stati confinanti. Una volta che la loro proprietà fosse minacciata da un rivale aggressivo, essi si sarebbero dovuti svegliare, e riconoscere la realtà, o sarebbero stati spazzati via. I ribelli del Benbili si stavano accorgendo proprio ora della realtà: stavano scoprendo che la libertà non vale niente se non si hanno dei cannoni per appoggiarla. Egli spiegò queste cose a Shevek nell’unica discussione che ebbero sull’argomento. Non aveva importanza chi governasse, o pensasse di governare, il Benbili: la politica della realtà riguardava la lotta di potere tra l’A-Io e il Thu.
— La politica della realtà — ripeté Shevek. Guardò Oiie e disse: — Ecco una curiosa frase, sulle labbra di un fisico.
— Niente affatto. Tanto il fisico quanto il politico trattano le cose che sono, con delle forze reali: con le leggi fondamentali del mondo.
— Lei mette le sue basse miserabili «leggi» per proteggere la ricchezza, le sue «forze» di cannoni e di bombe, nella stessa frase con la legge dell’entropia e la forza di gravità? Avevo un’idea assai più alta della sua mente, Demaere!
Oiie si ritirò da quella folgore di disprezzo. Non disse altro, e Shevek non disse altro, ma Oiie non dimenticò mai l’accaduto. Rimase fissato nella sua mente, da quel giorno in poi, come il momento più vergognoso della sua vita. Perché se Shevek l’illuso e semplicistico utopista l’aveva messo a tacere così facilmente, la cosa era vergognosa; ma se Shevek il fisico e l’uomo che egli non poteva fare a meno di amare, ammirare, a tal punto ch’egli ambiva di guadagnarsene il rispetto, come se fosse, chissà come, un grado di rispetto più appetibile di quello che si poteva comunemente trovare da altre parti, se questo secondo Shevek lo disprezzava, allora la vergogna era intollerabile, ed egli doveva nasconderla, chiuderla a chiave per il resto della propria vita nella stanza più buia della propria anima.
L’argomento della rivoluzione nel Benbili aveva reso più acuti certi problemi per Shevek: soprattutto il problema del proprio silenzio.
Era difficile per lui non fidarsi delle persone con cui viveva. Egli era cresciuto in una cultura che si basava deliberatamente e continuamente sulla solidarietà umana, sull’assistenza reciproca. Per alienato che egli fosse sotto alcuni aspetti da quella cultura, e straniero come egli era per quella di Urras, tuttavia l’abitudine di tutta una vita non si era cancellata: egli partiva dal presupposto che la gente avrebbe aiutato. Si fidava degli altri.
Ma gli avvertimenti di Chifoilisk, che egli aveva cercato di minimizzare, continuavano a ritornare a lui. Le sue stesse percezioni e il suo istinto li rafforzavano. Che gli piacesse o no, doveva imparare la sfiducia. Egli doveva rimanere in silenzio, doveva tenere per se stesso la sua proprietà; doveva conservare il proprio potere contrattuale.
Parlava poco, in quei giorni, e scriveva ancor meno. La sua scrivania era un ammasso di carte insignificanti; ma i suoi pochi appunti di lavoro erano sempre con lui, in una delle sue numerose tasche urrasiane. Non si alzava mai dal calcolatore da tavolo senza cancellarne tutte le memorie.
Egli sapeva di essere molto vicino a raggiungere quella Teoria Generale Temporale che gli iotici desideravano così ardentemente per le loro navi spaziali e il loro prestigio. E sapeva anche di non averla ancora raggiunta, forse di non poterla raggiungere mai. Non aveva mai ammesso chiaramente né la prima cosa né la seconda davanti a un’altra persona.