Prima di lasciare Anarres, egli aveva creduto di avere la teoria in pugno. Aveva le equazioni. Sabul sapeva ch’egli le aveva, e gli aveva offerto la riconciliazione, il riconoscimento, in cambio della possibilità di stamparle e di prendersi parte della gloria. Egli le aveva rifiutate a Sabul, ma non era stato un grande gesto morale. Il gesto morale, dopotutto, sarebbe stato quello di darle alla propria tipografia, al Gruppo dell’Iniziativa, ed egli non aveva fatto neppure quello. Non era completamente sicuro di essere pronto per la pubblicazione. C’era qualcosa che non era perfettamente giusto, qualcosa che richiedeva una piccola rifinitura. E dato ch’egli aveva lavorato per dieci anni sulla teoria, non ci sarebbe stato niente di male nel dedicarle ancora qualche tempo, per renderla perfettamente levigata.
Il piccolo «qualcosa» che non era perfettamente giusto continuò a parergli sempre più sbagliato. Un piccolo errore di ragionamento. Un grosso errore. Una crepa che raggiungeva le fondamenta… La notte prima di lasciare Anarres aveva bruciato ogni sua carta sulla Teoria Generale. Era giunto a Urras con niente. Da mezzo anno, egli, per usare i loro termini, li imbrogliava.
O imbrogliava se stesso?
Era possibile che una teoria generale della temporalità fosse una meta illusoria. Oppure che, pur essendo possibile unificare sotto una teoria generale la Sequenza e la Simultaneità, egli non fosse l’uomo destinato a unificarle. Aveva cercato di farlo per dieci anni, e non c’era riuscito. I matematici e i fisici, atleti dell’intelletto, compiono da giovani i loro grandi lavori. Era più che possibile… era probabile… che egli fosse ormai bruciato, finito.
Era perfettamente consapevole di essersi trovato nello stesso umore abbattuto e di avere avuto gli stessi presagi di insuccesso in tutti i periodi che avevano preceduto i suoi momenti di massima creatività. Scoprì che cercava di incoraggiare se stesso con questa considerazione, e si infuriò per la propria ingenuità. Interpretare l’ordine temporale come ordine di causa era la cosa più stupida che un filosofo temporale potesse fare. Stava già perdendo la propria intelligenza a causa dell’età? Era meglio limitarsi a mettersi al lavoro sul piccolo, ma pratico, compito di rifinire il concetto di intervallo. Sarebbe potuto risultare utile a qualcun altro.
Ma anche in questo, anche nel parlarne con altri fisici, egli si accorgeva di trattenere qualcosa. E anch’essi se ne accorgevano.
Era stufo di trattenere, stufo di non parlare, di non parlare della rivoluzione, di non parlare di fisica, di non parlare di nulla.
Stava attraversando il parco, diretto all’aula di lezione. Gli uccelli cantavano sugli alberi nuovamente ricoperti di foglie. Non li aveva uditi cantare per tutto l’inverno, ma ora essi cantavano, riversavano le dolci note. Rii-tii, cantavano, tii-daa. Questo è mia proprietà-taa, questo è territorio mio-oo, appartiene a me-ee.
Shevek rimase immobile per alcuni istanti sotto gli alberi, ad ascoltare.
Poi lasciò il sentiero, percorse il parco in un’altra direzione, verso la stazione, e prese un treno del mattino per Nio Esseia. Ci doveva essere una porta aperta da qualche parte di quel maledetto pianeta!
Egli pensò, mentre sedeva sul treno, di cercare di uscire dall’A-Io; di recarsi nel Benbili, magari. Ma non esaminò seriamente il pensiero. Avrebbe dovuto viaggiare su una nave o un aeroplano, e l’avrebbero seguito e fermato. L’unico posto in cui poteva sottrarsi alla vista dei suoi ospiti benevoli e protettivi era nella loro stessa grande città, sotto il loro naso.
Non era una fuga. Anche se fosse riuscito a uscire dal paese, egli sarebbe stato ugualmente prigioniero, chiuso entro Urras. Non la potevate chiamare fuga, indipendentemente dal nome che gli archisti, con la loro mistica dei confini nazionali, potevano darle. Ma d’improvviso si sentì allegro, come non si era più sentito da giorni, al pensiero che i benevoli e protettivi ospiti potevano temere, per qualche tempo, che egli fosse scappato.
Era il primo giorno veramente mite di primavera. I campi erano verdi, e luccicavano di acque. Sui terreni da pascolo ogni animale da allevamento era accompagnato dal proprio piccolo. Le piccole pecore erano particolarmente affascinanti, rimbalzavano come bianche matasse di elastico, la coda girava e girava. Tutto solo in un recinto, il padre del gregge, ariete, toro o stallone, dal collo possente, se ne stava fermo sulle quattro zampe, potente come una nube di tempesta, carico di generazioni. I gabbiani passavano su polle traboccanti, bianco su azzurro, e nuvole candide illuminavano il cielo turchino. I rami degli alberi da frutta avevano la punta rossa, e alcuni boccioli erano aperti, rosa e bianchi. Osservando dal finestrino del treno, Shevek trovò che il suo umore inquieto e ribelle era pronto a sfidare perfino la bellezza del giorno. Era una bellezza ingiusta. Che cosa avevano fatto, gli urrasiani, per meritarsela? Perché era stata data a loro con tanta prodigalità, con tanta grazia, e ne era stata data così poca, pochissima, al suo popolo?
Sto ragionando come un urrasiano, disse a se stesso. Come un maledetto proprietarista. Come se il merito significasse qualcosa. Come se si potesse guadagnare la bellezza, o la vita! Cercò di non pensare a nulla, di lasciarsi trasportare avanti e di osservare la luce del sole nel cielo gentile e le piccole pecore che rimbalzavano nei campi primaverili.
Nio Esseia, città di cinque milioni di anime, innalzava le sue torri delicate e lucenti al di là delle verdi paludi dell’Estuario, e pareva costruita di nebbia e di luce solare. Quando il treno deviò senza scosse su un lungo viadotto, la città si innalzò più alta, più luminosa, più solida, finché d’improvviso racchiuse completamente il convoglio nella ruggente oscurità di un raccordo sotterraneo, venti binari paralleli, e poi liberò treno e passeggeri negli spazi enormi e brillanti della Stazione Centrale, sotto la cupola di color avorio e turchino che godeva fama di essere la più vasta cupola innalzata su qualsiasi mondo dalla mano dell’uomo.
Shevek vagabondò per quelle migliaia di metri quadrati di marmo levigato, sotto l’immensa volta eterea, e giunse infine al lungo schieramento di porte da cui folle di persone entravano e uscivano continuamente: ogni persona con la propria finalità, ognuna separata dall’altra. Tutte parevano, a lui, ansiose. Egli aveva già visto, spesso, quell’ansia sul volto degli urrasiani, e se ne era chiesto la ragione. Era forse dovuta al fatto che, per quanto denaro avessero, dovevano sempre preoccuparsi di averne di più, per non morire in povertà? O era dovuta alla colpa, poiché, per poco che fosse il denaro da essi posseduto, c’era sempre qualcuno che ne aveva di meno? Qualunque fosse la causa, essa dava a tutti i volti una sorta di identità, ed egli si sentiva molto solo in mezzo a loro. Nello sfuggire alle sue guide e ai suoi guardiani, non aveva considerato cosa si provava trovandosi abbandonati a se stessi in una società in cui gli uomini non si fidavano l’uno dell’altro, in cui il postulato morale fondamentale non era la reciproca assistenza, ma la reciproca aggressione. Si sentiva un po’ spaventato.
Si era vagamente immaginato di andare in giro per la città e di scambiare qualche parola con la gente, con dei membri della classe non possidente, se essa ancora esisteva, o delle classi lavoratrici, come essi si definivano. Ma tutta quella gente gli passava davanti di corsa, per affari, e non desiderava chiacchiere oziose, non desiderava sprecare il proprio tempo prezioso. La loro fretta infettò anche Shevek. Doveva andare da qualche parte, pensò, mentre si affacciava sulla luce solare e sull’affollata magnificenza di Via Moie. Dove? La Biblioteca Nazionale? Lo Zoo? Ma egli non voleva panorami.
Incapace di decidere, si fermò davanti a un negozio, accanto alla stazione, che vendeva giornali e gingilli. I titoli di prima pagina dicevano THU INVIA TRUPPE A SOSTEGNO BENBILI RIBELLI, ma egli non ebbe alcuna reazione. Egli guardava le fotografie a colori nell’espositore, e non i giornali. Gli era venuto in mente di non avere alcun ricordo di Urras. Quando si viaggiava, era bene portare con sé, al ritorno, un ricordo. Gli piacevano quelle fotografie, scene dell’A-Io: le montagne che aveva scalato, i grattacieli di Nio, la cappella dell’Università (era quasi il panorama che vedeva dalla finestra!), una contadina nell’elegante abito della sua provincia, le torri di Rodarre, e quella che aveva colpito immediatamente la sua vista, un piccolo di pecora in un prato fiorito, che zampettava e, a quanto pareva, rideva. La piccola Pilun avrebbe apprezzato quella pecora. Prese una cartolina di ciascun tipo e le portò al banco. — Cinque fa cinquanta e con l’agnellino sessanta; e una piantina, ecco qui, signore, una e quaranta. Bella giornata, la primavera finalmente è arrivata, vero, signore? Non ha niente di più piccolo, signore? — Shevek aveva mostrato una banconota da venti unità monetarie. Pescò in tasca gli spiccioli che aveva ricevuto quando aveva acquistato il biglietto, e, con un piccolo studio delle denominazioni dei biglietti e delle monete, mise insieme una unità e quaranta. — Esatto, signore. Grazie, e le auguro una piacevole giornata!