Il denaro aveva comprato anche la cortesia, oltre che le cartoline e la piantina? Che cortesia avrebbe mostrato il negoziante se egli fosse entrato come entravano gli anarresiani in un distributorio di merci: per prendere ciò che volevano, fare un cenno del capo al contabile e poi uscire?
Inutile, inutile fare questi ragionamenti. Quando sei nel Paese dei Proprietaristi, pensa da proprietarista. Vestiti come lui, mangia come lui, agisci come lui, sii come lui.
Non c’erano parchi nel centro della città di Nio: il terreno era troppo prezioso per sprecarlo in frivolezze. Egli continuò a immergersi sempre più nelle stesse strade larghe e sfavillanti che gli avevano fatto percorrere varie volte. Giunse alla Saemtenevia e la attraversò in fretta, per evitare una ripetizione dell’incubo ad occhi aperti. Giunse così nel distretto commerciale. Banche, uffici, edifici governativi. Era tutta così, Nio Esseia? Grandi scatole lustre di pietra e di vetro, immensi, decorati, enormi pacchetti vuoti, vuoti.
Passando davanti a una vetrina con la scritta «Galleria d’Arte», egli entrò, pensando di poter sfuggire alla claustrofobia morale delle strade e di trovare nuovamente in un museo la bellezza di Urras. Ma tutti i quadri del museo avevano dei cartellini col prezzo incollati alla cornice. Rimase a fissare un nudo dipinto con abilità. Il cartellino diceva 4000 UMI. — Si tratta di un Fei Feite — disse un uomo scuro, comparso al suo fianco senza fare rumore. — La settimana scorsa ne avevamo cinque. La cosa più grossa del mercato artistico, tra poco tempo. Un Feite è un investimento sicuro, signore.
— Quattromila unità è il denaro che occorre per mantenere in vita due famiglie per un anno in questa città — disse Shevek.
L’uomo lo esaminò e disse, strascicando le parole: — Sì, certo, signore, ma quella, lei vede, è un’opera d’arte.
— Arte? Un uomo fa dell’arte perché deve farla. Per quale motivo è stato fatto quel quadro?
— Lei è un artista, vedo — disse l’uomo, ora con chiara insolenza.
— No, sono un uomo che riconosce la merda quando la vede! — Il mercante indietreggiò, allibito. Quando fu uscito dalla portata di Shevek, cominciò a mormorare qualcosa sulla polizia. Shevek sogghignò e uscì dal negozio. Giunto a metà isolato, si fermò. Non poteva andare avanti così.
Ma dove poteva andare?
Da qualcuno… da qualcuno, un’altra persona. Un essere umano. Qualcuno disposto a dargli aiuto, non a venderlo. Chi? Dove?
Pensò ai figli di Oiie, i bambini che lo amavano, e per qualche tempo non riuscì a pensare ad altri. Poi gli si formò nella mente un’immagine, lontana, piccola e chiara: la sorella di Oiie. Come si chiamava? «Prometta di telefonarmi» gli aveva detto, e da allora gli aveva inviato due volte lettere d’invito a ricevimenti, scritte con grafia chiara e infantile, su carta spessa, profumata in modo dolciastro. Egli le aveva ignorate, come gli inviti di estranei. Ora le ricordò.
Insieme ricordò anche l’altro messaggio, quello che era comparso inesplicabilmente nella tasca del suo cappotto: Unisciti a noi tuoi fratelli. Ma non poteva trovare alcun fratello, su Urras. Entrò nel negozio più vicino. Era un negozio di dolci, tutto ghirigori dorati e stucchi rosa, con file di casse di vetro piene di scatole, piatti, cestini di paste e cioccolate rosse, brune, color crema e oro. Chiese alla donna dietro le casse se lo poteva aiutare a trovare un numero di telefono. Ora si sentiva sottomesso, dopo l’accesso di collera dal venditore di quadri, e così umilmente ignorante e straniero che la donna ne fu conquistata. Non solo lo aiutò a cercare il nome nella ponderosa guida dei numeri telefonici, ma compose per lui il numero al telefono del negozio.
— Pronto?
Egli disse: — Shevek. — Poi tacque. Per lui il telefono era il veicolo di urgenti necessità: comunicazioni di morti, nascite, e terremoti. Non aveva idea di che cosa dire.
— Chi? Shevek? Davvero? Come è stato caro a telefonare! Non mi dà nessun fastidio svegliarmi, se si tratta di lei.
— Dormiva ancora?
— Dormivo come un sasso, e sono ancora a letto. Si sta bene e al calduccio. Da dove mi telefona?
— Sono in via Kae Sekae, mi pare.
— E che ci fa? Venga qui. Che ore sono? Santo Dio, è quasi mezzogiorno. So dov’è, troviamoci a metà strada. Al laghetto delle barche, nei giardini del Vecchio Palazzo. Riesce a trovarlo? Senta, lei si deve assolutamente fermare, ho un ricevimento veramente paradisiaco questa sera. — Continuò a parlargli per un po’; egli disse sì a tutte le sue parole. Quando ebbe terminato la conversazione e passò davanti al banco, la donna del negozio gli sorrise. — Meglio portarle una scatola di dolci, non le pare, signore?
Egli si arrestò. — Devo farlo?
— Non guasta mai, signore.
Nella voce della donna c’era qualcosa di sfacciato e di allegro. L’aria del negozio era dolce e tiepida, come se tutti i profumi di primavera vi si fossero affollati. Shevek, fermo in mezzo alle casse di piccole graziose lussuosità, alto, pesante, con la testa fra le nuvole, ricordava quei pesanti animali nei recinti, gli arieti e i tori stupefatti dal trepido tepore primaverile.
— Le do io una cosa adatta — disse la donna, e riempì una piccola scatola metallica, squisitamente smaltata, di minuscole foglie di cioccolata e rose di zucchero. Avvolse la scatola in carta morbida, infilò il pacchetto in un’altra scatola, di cartone argentato, avvolse la scatola di cartone in un foglio di carta spesso, di colore rosa, e legò il tutto con un nastro di velluto verde. In tutti i suoi abili movimenti si poteva avvertire una sorridente e simpatica complicità, e quando diede a Shevek il pacchetto completato, ed egli lo prese mormorando un ringraziamento e si voltò per andare, non ci fu nulla di pungente nella sua voce che gli ricordava: — Fa dieci e sessanta, signore. — Avrebbe forse potuto lasciarlo andare, compatendolo, come le donne usano compatire la forza; ma egli, obbedientemente, tornò indietro e le contò il denaro.
Trovò il modo di arrivare con la metropolitana ai giardini del Vecchio Palazzo, e si recò al laghetto delle barche, dove bambini vestiti in modo affascinante facevano navigare battelli giocattolo, meravigliose piccole imbarcazioni con corde di seta e finiture in bronzo simili a gioielli. Scorse Vea dall’altra parte dell’ampio, chiaro cerchio dell’acqua e fece il giro del laghetto per raggiungerla, cosciente del sole, del vento di primavera, e degli scuri alberi del parco che mettevano le prime foglie di colore verde pallido.
Fecero colazione a un ristorante del parco, su un terrapieno coperto da un’alta cupola di vetro. Alla luce del sole, entro la cupola, gli alberi erano in piena foglia: salici, ai bordi di un laghetto dove grassi uccelli bianchi nuotavano e osservavano con indolente avidità coloro che mangiavano, in attesa di briciole. Vea non si incaricò di ordinare, indicando chiaramente che era ospite di Shevek, ma abili camerieri lo consigliarono in modo così accorto che egli ebbe l’impressione di fare ogni cosa da solo; e fortunatamente aveva molto denaro in tasca. Il cibo era straordinario. Egli non aveva mai assaggiato simili sottigliezze di gusto. Abituato a consumare due pasti al giorno, di solito saltava la colazione di mezzogiorno caratteristica degli urrasiani, ma oggi la consumò da cima a fondo, mentre invece Vea si limitò delicatamente a pizzichi e assaggi. Infine dovette fermarsi, ed ella rise nello scorgere la sua espressione colpevole.