— Ho mangiato troppo.
— Due passi possono servire.
Furono proprio «due passi»: una lenta passeggiata di dieci minuti sull’erba, e poi Vea si lasciò scivolare graziosamente all’ombra di un’alta siepe, schiarita da fiori gialli. Egli si sedette accanto a lei. Una frase usata da Takver gli venne in mente, mentre guardava i piedi sottili di Vea, decorati di piccole scarpine bianche dal tacco vertiginosamente alto. «Una speculatrice del corpo», così Takver chiamava le donne che usavano la loro sessualità come arma in una lotta di potere con gli uomini. A osservarla, Vea era la speculatrice del corpo capace di mettere fuori combattimento tutte le altre. Scarpe, abiti, cosmetici, gioielli, gesti, ogni cosa di lei gridava provocazione. Era così elaboratamente, ostentatamente un corpo femminile, che non pareva quasi più un essere umano. Incarnava tutta quella sessualità repressa degli iotici che si affacciava nei loro sogni, romanzi e poesia, nei loro infiniti quadri di nudi femminili, nella loro musica, nella loro architettura a cupole e curve flessuose, nei loro dolci, nei loro bagni e nei loro materassi. Vea era la donna dentro il tavolino.
La sua testa, completamente rasata, era spolverata di una cipria contenente minuscole scagliette di mica, e un debole luccichio offuscava la nudità dei contorni. Indossava una sciarpa o uno scialle trasparente, sotto il quale la forma e il tessuto delle sue braccia nude si mostravano ammorbiditi e protetti. Il seno era coperto; le donne iotiche non uscivano di casa a seno nudo: riservavano la sua nudità a chi la possedeva. I polsi erano carichi di braccialetti d’oro, e nel cavo della gola un singolo gioiello azzurro risaltava contro la pelle soffice.
— Come fa, a stare su?
— Che cosa? — Poiché non poteva vedere direttamente il gioiello, ella poteva pretendere di non sapere d’averlo, costringendo Shevek a indicarlo, e forse a portare la mano al di sopra del suo seno per toccare la gemma. Shevek sorrise e la toccò. — È incollata?
— Oh, quella. No, ho un piccolissimo magnetino lì, e la pietra ha un piccolissimo pezzettino di metallo nella parte posteriore, oppure è il contrario? Comunque, rimaniamo appiccicati insieme.
— Lei ha un magnete sotto la pelle? — domandò Shevek, schiettamente disgustato.
Vea sorrise e sollevò lo zaffiro, in modo ch’egli potesse vedere come ci fosse soltanto una minuscola cicatrice argentea. — Lei mi disapprova in modo così assolutamente totale… è un sollievo. Sento che qualsiasi cosa io faccia o dica, non posso cadere più in basso, nella sua opinione, poiché ho già raggiunto il fondo!
— Non è affatto vero — egli protestò. Sapeva che la donna celiava, ma conosceva poche regole di quel gioco.
— No, no; so riconoscere l’orrore morale quando lo vedo. Così. — Aggrottò la fronte in segno di disgusto; entrambi risero. — Sono davvero così diversa dalle donne di Anarres?
— Oh, certo, davvero.
— Sono tutte terribilmente forti, coi muscoli? Mettono gli stivali, hanno grossi piedi piatti, abiti senza forma, e si depilano una volta al mese?
— Non si depilano affatto.
— Non si depilano mai? Da nessuna parte? Oh, Dio! Parliamo d’altro.
— Parliamo di lei. — Appoggiò la schiena al terreno coperto d’erba, abbastanza vicino a Vea da essere avvolto dai profumi naturali e artificiali del suo corpo. — Vorrei sapere, le donne urrasiane sono contente di essere sempre inferiori?
— Inferiori a chi?
— Agli uomini.
— Oh… quello! Che cosa le fa credere che io lo sia?
— Mi pare che ogni cosa fatta dalla vostra società sia fatta da uomini. L’industria, le arti, l’amministrazione, il governò, le decisioni. E per tutta la vita portate il nome del padre e quello del marito. Gli uomini vanno a scuola, e voi non ci andate; sono maschi tutti gli insegnanti, i giudici, la polizia, e il governo, no? Perché lasciate che comandino tutto? Perché non fate ciò che vi pare?
— Ma noi lo facciamo! Le donne fanno esattamente quello che vogliono. E non devono sporcarsi le mani, o infilarsi elmetti di bronzo, o mettersi a gridare da un banco del Direttorato, per ottenerlo.
— Ma che cos’è, quello che fate?
— Come, comandare gli uomini, naturalmente! E lei deve sapere, non c’è nessun pericolo a dirlo, poiché non saranno mai disposti a crederlo. Dicono: «Ah ah, sei proprio divertente, piccola!» e ti danno un buffetto sulla nuca e poi se ne escono a passo dell’oca, pienamente soddisfatti, con tutte le medaglie che tintinnano.
— E voi siete soddisfatte?
— Naturalmente, sì.
— Non ci credo.
— Perché non si accorda con i suoi princìpi. Gli uomini hanno sempre qualche teoria, e le cose devono sempre accordarsi ad essa.
— No, non per qualche teoria, ma perché posso vedere che lei non è contenta. Che lei è inquieta, insoddisfatta, pericolosa.
— Pericolosa! — Vea rise, raggiante. — Che complimento assolutamente meraviglioso! Perché sono pericolosa, Shevek?
— Be’, perché lei sa che agli occhi degli uomini è soltanto una cosa, qualcosa che si possiede, si compra, si vende. E dunque lei pensa soltanto a ingannare il possessore, a vendicarsi…
Lei gli pose deliberatamente la piccola mano sulle labbra. — Silenzio — disse. — So che non intende essere volgare. La perdono. Ma ora basta.
Egli si aggrottò ferocemente di fronte all’ipocrisia, e di fronte alla comprensione che forse poteva averla davvero ferita. Sentiva ancora sulle labbra il breve tocco della sua mano. — Mi spiace! — disse.
— No, no. Come può capire, lei, che viene dalla Luna? E poi, lei è soltanto un uomo… Comunque, le dirò una cosa. Se prendeste una delle vostre «sorelle», lassù sulla Luna, e le deste la possibilità di togliersi gli stivali, e di fare un bagno e un massaggio e una depilazione, e di infilarsi un paio di sandaletti allegri, e di mettersi un gioiello all’ombelico, e del profumo, la cosa le piacerebbe, glielo assicuro. E piacerebbe anche a voi! Oh, come vi piacerebbe! Ma voi non lo fareste mai, voi, povere cose, con le vostre teorie. Tutti fratelli e sorelle, e niente divertimento.
— Ha ragione — disse Shevek. — Niente divertimento. Mai. Su Anarres stiamo tutto il giorno a scavare piombo nelle budella delle miniere, e quando viene la notte, dopo il solito pasto di tre grani di holum cotti in un cucchiaio di acqua di mare, recitiamo antifonicamente i Detti di Odo, fino all’ora di andare a letto. Cosa che facciamo tutti separatamente, e senza sfilarci gli stivali.
La sua conoscenza pratica dello iotico non era sufficiente a permettergli i voli verbali che avrebbe potuto fare nella propria lingua, una di quelle estemporanee fantasticherie che soltanto Takver e Sedik avevano ascoltato con frequenza sufficiente da non badare più ad esse; tuttavia, per quanto fossero zoppe, le sue parole sorpresero Vea. Proruppe la sua risata nera, pesante e spontanea. — Santo Dio, ma lei è anche spiritoso! C’è qualcosa che lei non sia?
— Un venditore — egli rispose.
Lei lo studiò, sorridendo. C’era qualcosa di professionale, da attrice, nella sua posa. Le persone di solito non si osservano con attenzione a brevissima distanza, a meno che non siano madre e bambino piccolo, o dottori con pazienti, o amanti.
Egli si rizzò a sedere. — Vorrei ancora camminare — disse.
Ella allungò la mano perché lui la prendesse e la aiutasse ad alzarsi. Il gesto era indolente e invitante, ma ella disse con una tenerezza incerta nella voce: — Lei è davvero come un fratello… Prenda la mia mano. Poi la lascerò andare!
Passeggiarono lungo i sentieri del grande giardino. Entrarono nel palazzo, conservato come museo degli antichi tempi della regalità, poiché Vea disse che le piaceva guardare i gioielli che conteneva. Ritratti di principi e baroni arroganti li fissavano dalle pareti tappezzate di broccato e dall’alto di caminetti scolpiti. Le stanze erano piene di argento, oro, cristallo, legni rari, tappezzerie e gioielli. Accanto ai cordoni di velluto stavano ferme le guardie. Le loro uniformi nere e scarlatte si sposavano bene agli splendori, ai tendaggi in filo d’oro, alle coperte di piume intessute, ma i loro volti rompevano quell’armonia: erano volti annoiati e stanchi, stanchi di starsene in piedi tutto il giorno, in mezzo a sconosciuti, per svolgere un lavoro inutile. Shevek e Vea giunsero a una teca di vetro nella quale era contenuto il mantello della Regina Teaea, fatto con le pelli conciate di ribelli spellati vivi, che quella donna terribile e spavalda indossava quando andava tra la propria gente flagellata dalla peste a pregare Dio di porre fine alla malattia, quattordici secoli prima. — Mi sembra pergamena — disse Vea, esaminando lo straccio scolorito e macchiato dal tempo esposto nella vetrina. Alzò lo sguardo su Shevek. — Si sente bene?