Выбрать главу

— No, no — disse l’uomo timido, che per l’occasione aveva perso ogni timidezza. — Non è qui come può esserlo un divano o una casa. Il tempo non è lo spazio. Non ci si può camminare dentro! — Vea annuì, felice, come se il fatto di essere stata rimessa al suo posto le desse sollievo. E come se avesse ricevuto coraggio dal fatto di avere scacciato la donna dai reami del pensiero superiore, l’uomo timido si voltò verso Dearri e disse: — Mi pare che l’applicazione della fisica temporale sia nel campo dell’etica. Lei è d’accordo, dottor Shevek?

— L’etica? Be’, non saprei. Io mi occupo prevalentemente di matematica, sa. Non si può mettere sotto equazioni il comportamento morale.

— Perché no? — chiese Dearri.

Shevek lo ignorò. — Ma è vero, la cronosofia tocca davvero l’etica. Poiché il nostro senso del tempo tocca la nostra abilità nel separare causa ed effetto, fini e mezzi. Il bambino, anche questa volta, o l’animale: essi non vedono la differenza tra ciò che compiono ora e ciò che succederà a causa di questa loro azione. Non sono capaci di azionare una carrucola, o di fare una promessa. Ma noi sì. Vedendo la differenza tra l’adesso e il non adesso, noi possiamo fare la connessione. E qui fa il suo ingresso la moralità. La responsabilità. Dire che un fine buono nascerà da un mezzo cattivo è come dire che se tiro questa corda della carrucola solleverò il peso appeso a quell’altra corda. Infrangere una promessa equivale a negare la realtà del passato; pertanto è negare la speranza di un vero futuro. Se tempo e ragione sono l’uno funzione dell’altra, se noi siamo creature del tempo, allora è meglio che lo sappiamo, e che cerchiamo di trarne il bene. Di agire responsabilmente.

— Ma senta — disse Dearri, con ineffabile soddisfazione a causa della propria acutezza, — lei ha appena detto che nel suo sistema della Simultaneità non ci sono un passato e un futuro, ma solo una sorta di eterno presente. Così, come si può essere responsabili del libro che è già stato scritto? L’unica cosa che si può fare è quella di leggerlo. Non resta scelta, non resta libertà d’azione.

— Questo è il dilemma del determinismo. Lei ha ragione, è implicito nel pensiero simultanista. Ma anche il pensiero Sequenziale ha il suo dilemma. Si potrebbe esprimerlo con una piccola immagine sciocca… lei getta una pietra contro un albero, e se lei è un Simultanista, la pietra ha già colpito l’albero, mentre se lei è un Sequenzialista, non potrà mai colpirlo. Quale scegliere, allora? Forse lei preferirà scagliare pietre senza preoccuparsi della cosa, senza operare la scelta. Io invece preferisco complicare le cose, e le scelgo entrambe.

— E come… e come le riconcilia? — chiese l’uomo timido, con ansia.

Shevek quasi rise per la disperazione. — Non lo so. Sto lavorando da molto tempo per farlo! Dopotutto, la pietra colpisce davvero l’albero. Né la pura sequenza né la pura unità potranno spiegarlo. Noi non vogliamo la purezza, ma la complessità, il rapporto di causa ed effetto, fini e mezzi. Il nostro modello del cosmo dev’essere inesauribile come il cosmo stesso. Una complessità che comprenda non solo la durata, ma anche la creazione, non solo l’essere, ma anche il divenire, non solo la geometria, ma anche l’etica. Non è la risposta, ciò che cerchiamo, ma soltanto il modo corretto di formulare la domanda…

— Tutto molto bello, ma l’industria ha bisogno di risposte — disse Dearri.

Shevek si voltò lentamente, abbassò gli occhi su di lui e non disse parola.

Cadde un pesante silenzio, nel quale Vea si infilò subito, con grazia e incoerenza, per tornare al suo tema della predizione del futuro. Altri vennero richiamati dall’argomento, e tutti cominciarono a riferire le proprie esperienze con indovini e chiaroveggenti.

Shevek decise di non dire più nulla, indipendentemente da ciò che gli avessero chiesto. Aveva più sete del solito; lasciò che il cameriere gli riempisse ancora il bicchiere, e sorseggiò il liquido frizzante e piacevole. Si guardò intorno, cercando di dissipare la collera e la tensione osservando gli altri. Ma anche gli altri si comportavano in modo molto emotivo, per degli iotici: gridavano, ridevano forte, si interrompevano l’un l’altro. Una coppia indulgeva in preliminari sessuali, in un angolo. Shevek distolse lo sguardo, disgustato. Ma egoizzavano perfino nel sesso? Accarezzarsi e copulare davanti a gente non accoppiata era altrettanto volgare quanto mangiare davanti a persone affamate. Riportò la propria attenzione al gruppo che stava intorno a lui. Avevano lasciato la predizione, ora, ed erano passati alla politica. Stavano discutendo della guerra, di quel che il Thu avrebbe fatto come mossa successiva, di quel che l’A-Io avrebbe fatto, di quel che il CGM avrebbe fatto.

— Perché parlate soltanto in astratto? — egli domandò d’improvviso, chiedendosi, mentre parlava, perché mai avesse aperto bocca, visto che aveva deciso di non parlare più. — Non sono nomi di paesi, sono persone che si ammazzano tra loro. Perché i soldati vanno? Perché una persona va a uccidere degli stranieri?

— Ma questa è proprio la funzione dei soldati — disse una donna piccola e graziosa, con un’opale nell’ombelico. Vari uomini cominciarono a spiegare a Shevek il principio della sovranità nazionale. Vea li interruppe. — Lasciatelo parlare. Come risolverebbe, lei, questo pasticcio, Shevek?

— La soluzione è perfettamente visibile.

— E dove?

— Anarres!

— Ma ciò che la sua gente fa sulla Luna non risolve i nostri problemi di qua.

— I problemi dell’uomo sono sempre uguali. Sopravvivenza. Di specie, di gruppo, di individuo.

— La difesa nazionale… — cominciò a gridare qualcuno.

Essi ribatterono ed egli ribatté. Sapeva ciò che intendeva dire, e sapeva che avrebbe convinto tutti, poiché era chiaro e sincero, ma per qualche motivo non riusciva a dirlo nel modo giusto. Tutti urlavano. La donna piccola e graziosa batté la mano sull’ampio bracciolo della poltrona su cui sedeva, ed egli vi si accomodò. La testa rasata, luccicante della donna spiò da dietro il suo braccio. — Salve, Uomo della Luna! — disse. Vea si era momentaneamente unita a un altro gruppo, ma adesso era tornata accanto a lui. Aveva il viso arrossato; i suoi occhi parevano grandi e liquidi. Gli parve di vedere Pae dall’altra parte della stanza, ma le facce erano tante, si confondevano tra loro. Le cose accadevano a pezzi e brandelli, inframmezzate da vuoti, come se gli fosse stato concesso di assistere al funzionamento del Cosmo Ciclico dell’ipotesi della vecchia Garab, da dietro le quinte. — Il principio dell’autorità legale deve essere sostenuto, altrimenti degenereremmo nella mera anarchia! — tuonava un uomo grasso e accigliato. Shevek disse: — Sì, sì, degenerate pure! Noi l’apprezziamo da un secolo e mezzo. — I piedi della donna piccola e graziosa, calzati in sandaletti d’argento, fecero capolino da sotto la gonna, su cui erano cucite centinaia e centinaia di perline che la ricoprivano tutta. Vea disse: — Ma ci parli di Anarres… com’è, realmente? È davvero così bello, lassù?

Egli era seduto sul bracciolo della poltrona, e Vea era rannicchiata sul cuscino accanto alle sue ginocchia, eretta e flessuosa, con i soffici seni che lo fissavano con i loro occhi ciechi, con il volto sorridente, compiaciuto, arrossato.

Qualcosa di cupo ruotava nella mente di Shevek, oscurando ogni cosa. Aveva la bocca secca. Terminò il bicchiere che il cameriere gli aveva appena servito. — Non so — rispose; sentiva la lingua quasi paralizzata. — No. Non è bello. È un mondo molto brutto. Non è come questo. Anarres è tutto polvere e colline aride. Tutto magro, tutto asciutto. E la gente non è bella. Hanno mani e piedi grossi, come me e come il cameriere che ci serve. Ma non hanno la pancia grossa. Diventano molto sporchi, e tutti fanno il bagno insieme, nessuno qui lo fa. Le città sono molto piccole e brutte, sono orribili. Non ci sono palazzi. La vita è noiosa, ed è un duro lavoro. Non sempre si può avere quello che si vuole, e neppure quello di cui si ha bisogno, perché non c’è abbastanza. Voi urrasiani avete abbastanza. Abbastanza aria, abbastanza pioggia, erba, oceano, cibo, musica, edifici, fabbriche, macchine, libri, vestiti, storia. Voi siete ricchi, voi possedete. Noi siamo poveri, noi manchiamo. Voi avete, noi non abbiamo. Ogni cosa è bella, qui. Fuorché le facce. Su Anarres non c’è nulla di bello, fuorché le facce. Le altre facce, gli uomini e le donne. Noi abbiamo solo quello, solo gli altri. Qui voi guardate i gioielli, là guardate gli occhi. E negli occhi vedete lo splendore, lo splendore dello spirito umano. Perché i nostri uomini e donne sono liberi… non possedendo nulla, sono liberi. E voi, i possessori, siete posseduti. Siete tutti in prigione. Ciascuno è solo, isolato, con il fagotto di ciò che possiede. Voi vivete in prigione, morite in prigione. E la sola cosa che posso vedere nei vostri occhi… il muro, il muro!