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Tutti lo stavano fissando.

Udì la propria voce echeggiare ancora nel silenzio, sentì le orecchie bruciare. L’oscurità, il vuoto, rigirò ancora una volta nella sua mente. — Ho il capogiro — disse, e si alzò in piedi.

Vea accorse al suo braccio. — Venga da questa parte — disse, ridendo un poco, e senza fiato. La seguì mentre si faceva strada tra la gente. Ora sentiva di avere il viso molto pallido; e il capogiro non gli passava; sperava che lo stesse portando nella camera da bagno, o a una finestra dove avrebbe potuto respirare aria fresca. Ma la stanza in cui giunsero era grande e illuminata debolmente da luci indirette. Contro una parete si distingueva la mole di un letto grande, bianco; uno specchio copriva metà di un’altra parete. C’era una vicina, dolce fragranza di stoffe e di biancheria, e del profumo usato da Vea.

— Lei è troppo — disse Vea, portandosi direttamente davanti a lui e fissandolo in viso, nella semioscurità, con quella risata ansante. — Davvero troppo… lei è impossibile… è magnifico! — Gli posò le mani sulle spalle. — Oh, la faccia che facevano! Devo proprio darle un bacio per questo! — E, sollevandosi in punta di piedi, gli presentò la bocca, e la gola bianca, e i seni nudi.

Egli la strinse e le baciò la bocca, forzandole indietro la testa, e poi la gola e il seno. Ella cedette in un primo momento, come se non avesse ossa, poi si contorse un pochino, ridendo e spingendolo via debolmente, e cominciò a dire: — Oh, no, no, adesso si comporti bene — e poi: — Su, ragioni, dobbiamo tornare dagli altri. No, Shevek, si calmi, questo non va affatto! — Non le prestò attenzione. La spinse con sé verso il letto, ed ella venne, pur continuando a parlare. Con una mano, Shevek armeggiò con i complicati vestiti che indossava e riuscì a sbottonare i calzoni. Poi c’era il vestito di Vea, la gonna bassa ma stretta, ch’egli non riuscì a sollevare. — Ora basta — disse lei. — No, ora mi ascolti, Shevek, non va proprio, non ora. Non ho preso contracettivi, se resto gravida sarò in un bel pasticcio, mio marito torna tra quindici giorni! No, mi lasci — ma egli non poteva lasciarla; premeva la faccia contro la sua pelle soffice, sudata, profumata. — Ascolti, non mi rovini il vestito, la gente se ne accorgerà, per l’amor del Cielo. Aspetti… abbia solo pazienza, possiamo predisporlo, possiamo trovare un posto dove incontrarci, devo stare attenta alla mia reputazione, non posso fidarmi della cameriera, abbia pazienza, non ora… Non ora! Non ora! — Spaventata infine dalla sua cieca urgenza, dalla sua forza, lo spinse via con tutta la forza, premendogli le mani contro il petto. Egli fece un passo indietro, confuso dal suo improvviso tono impaurito e dalla sua resistenza; ma ormai non si poteva più fermare, la resistenza della donna era servita soltanto a eccitarlo maggiormente. La strinse a sé, e il suo seme schizzò contro il bianco tessuto della gonna.

— Mi lasci! Mi lasci! — ripeteva lei, con lo stesso bisbiglio acuto di prima. Egli la lasciò. Rimase immobile, stordito. Armeggiò con i calzoni, cercando di chiuderli. — Io… mi spiace… pensavo che volesse…

— Per l’amor di Dio! — esclamò Vea, guardandosi la gonna nella semioscurità, afferrando le pieghe con due dita. — Ma guarda solo! Adesso mi dovrò cambiare!

Shevek rimase lì imbambolato, con la bocca aperta, respirando con difficoltà, le braccia penzoloni; poi d’improvviso si voltò e uscì incespicando dalla stanza semibuia. Ritornato nella stanza illuminata del ricevimento, passò tra la gente che vi si affollava, inciampò in una gamba, si trovò la strada bloccata da corpi, abiti, gioielli, seni, occhi, fiamme di candela, mobilio. Finì a sbattere contro una tavola. Su di essa c’era un vassoio d’argento nel quale piccole paste piene di carne, salse ed erbe erano disposte in cerchi concentrici, simili a un grande, pallido fiore. Shevek annaspò per respirare, si piegò su se stesso e vomitò sul vassoio.

— Lo porto a casa — disse Pae.

— Se lo porti via, per l’amor di Dio — disse Vea. — Lo stava cercando, Saio?

— Oh, un poco. Fortunatamente Demaere le ha telefonato.

— Glielo regalo.

— Non darà alcun fastidio. Si è addormentato in corridoio. Posso fare una telefonata, prima di uscire?

— Dia un bacio per me al Capo — disse Vea, ironicamente.

Oiie era giunto con Pae nell’appartamento della sorella, e con lui se ne andò. Si accomodarono nel sedile di mezzo della grossa auto governativa che Pae riusciva sempre ad avere con una telefonata: la stessa auto che era andata a prendere Shevek allo spazioporto l’estate precedente. Ora Shevek era steso dove l’avevano buttato, sul sedile posteriore.

— È stato con sua sorella tutto il giorno, Demaere?

— A partire da mezzogiorno, a quanto so.

— Grazie a Dio!

— Perché si preoccupa del fatto che sia andato nella zona povera? Ogni Odoniano è già convinto che siamo un mucchio di oppressi e di schiavi salariati; che differenza fa, anche se vede qualcosa che gli incoraggia la convinzione?

— Non m’importa di ciò che vede. Non vogliamo che sia visto. Non ha letto i quotidiani dei merli? O i manifestini che circolavano la scorsa settimana nella Città Vecchia, che parlavano del «Precursore»? Il mito dell’uomo che annuncia il millennio, «uno straniero, un proscritto, un esule che porta nelle mani vuote il tempo che verrà». Citavano queste parole. La marmaglia ha uno di quei suoi maledetti attacchi apocalittici. Cerca un personaggio da seguire. Un catalizzatore. Parlano di sciopero generale. Non impareranno mai. Hanno sempre bisogno di una lezione. Maledette bestie rivoltose, mandiamole a combattere il Thu, è l’unica cosa buona che riusciremo a cavarne.

Nessuno dei due disse altro, per tutto il viaggio.

Il guardiano notturno della Casa degli Anziani di Facoltà li aiutò a portare Shevek nella sua stanza. Lo misero sul letto. Cominciò subito a russare.

Oiie rimase ancora per togliere a Shevek le scarpe e per stendere una coperta sopra di lui. Il fiato dell’ubriaco puzzava; Oiie si allontanò dal letto, il timore e l’amore che provava per Shevek si alzavano in lui, e ciascuno soffocava l’altro. Aggrottò la fronte e mormorò: — Brutto scemo. — Spense la luce e tornò nell’altra stanza. Pae, fermo accanto alla scrivania, esaminava le carte di Shevek.

— Andiamo — disse Oiie, la cui espressione di disgusto si era fatta più intensa. — Venga. Sono le due. Ho sonno.

— Ma cosa ha continuato a fare, il bastardo, Demaere? Qui non c’è ancora nulla, assolutamente nulla. Che sia un imbroglio completo? Ci siamo fatti fregare da un maledetto paesano ingenuo proveniente dall’Utopia? Dov’è la sua teoria? Dov’è il nostro volo spaziale istantaneo? Dov’è il nostro vantaggio sugli Hainiti? Nove, dieci mesi che nutriamo il bastardo, per niente! — Comunque, s’infilò in tasca uno dei fogli prima di seguire Oiie alla porta.

CAPITOLO 8

Erano fuori all’aperto, sui campi atletici del Parco Settentrionale di Abbenay, ed erano in sei, nel lungo color oro, nel calore e nella polvere della sera. Erano piacevolmente sazi, poiché il pasto era durato buona parte del pomeriggio: una festa in strada e cottura su fuochi all’aperto. Era la festa dell’estate, il Giorno dell’Insurrezione, che commemorava il primo grande sollevamento di Nio Esseia nell’anno urrasiano 740, circa due secoli prima. Cuochi e lavoratori delle mense venivano onorati come ospiti dal resto della comunità, quel giorno, poiché era stato un gruppo di cuochi e camerieri a dare inizio agli scioperi che avevano condotto all’insurrezione. C’erano varie altre feste e tradizioni di questo tipo su Anarres, alcune istituite dai Coloni, e altre, come la fine del raccolto e la Festa del Solstizio, sorte spontaneamente dai ritmi della vita sul pianeta e dal bisogno, di coloro che lavorano insieme, di fare festa insieme.