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Stavano chiacchierando, tutti in modo piuttosto disordinato, eccetto Takver, che aveva danzato per ore, aveva mangiato spaventose quantità di pane fritto e sottaceti e si sentiva piena di brio. — Perché Kvigot è stato assegnato alle pescherie del Mare Kerano, dove dovrà ricominciare tutto da capo, mentre Turib gli subentra qui nel suo programma di ricerca? — stava dicendo. Il suo gruppo di ricerca era stato incorporato in un progetto controllato direttamente dal CDP, ed ella era divenuta una forte sostenitrice di alcune idee di Bedap. — Perché Kvigot è un buon biologo che non va d’accordo con le teorie antiquate di Simas, e Turib è una nullità che gratta la schiena a Simas nei bagni. E sai chi prenderà la direzione del programma quando Simas si ritirerà? La prenderà Turib, ci scommetto!

— Che cosa significa questa espressione? — chiese qualcuno che non si sentiva molto portato per la critica sociale.

Bedap, che aveva acquistato peso in cintola e affrontava seriamente il problema dell’esercizio fisico, stava trotterellando animatamente nel campo d’allenamento. Gli altri sedevano su un’aiola polverosa, sotto gli alberi, e facevano esercizio verbale.

— È un verbo iotico — disse Shevek. — Un gioco che gli urrasiani fanno con le probabilità. Colui che indovina riceve una proprietà dall’altro. — Già da tempo aveva smesso di rispettare il divieto di Sabul di parlare dei suoi studi di iotico.

— E come ha fatto a entrare nel pravico una delle loro parole?

— I Coloni — disse un altro. — Dovettero imparare il pravico da adulti; devono avere continuato a pensare nella vecchia lingua per molto tempo. Ho letto da qualche parte che la parola dannazione non esiste nel Dizionario Pravico… anch’essa è iotica. Farigv non ci ha fornito nessuna parola per imprecare, quando ha inventato il linguaggio, oppure i suoi calcolatori non ne hanno compreso la necessità.

— Che cos’è l’inferno, allora? — chiese Takver. — Una volta pensavo che significasse il deposito di letame della città dove sono cresciuta. «Vai all’inferno!» Il luogo peggiore dove andare.

Desar il matematico (che ora aveva un incarico permanente tra il personale dell’Istituto ma continuava a girare nell’orbita di Shevek), sebbene rivolgesse raramente la parola a Takver, disse, nel suo stile crittografico: — Significa Urras.

— Su Urras, significa il posto dove vai se sei dannato.

— Cioè un’assegnazione nel Sudovest in estate — disse Terrus, un’ecologa, vecchia amica di Takver.

— È nel modello religioso, in iotico.

— So che devi leggere lo iotico, Shevek, ma devi anche leggere la religione?

— Parte della vecchia fisica urrasiana è tutta nel modello religioso. Saltano fuori concetti come quello. «Inferno» significa il luogo del male assoluto.

— Il deposito del letame a Valle Rotonda — Takver disse. — Come dicevo.

Giunse Bedap, affannato, bianco di polvere, segnato di rivoletti di sudore. Si sedette accanto a Shevek e si mise a respirare pesantemente.

— Di’ qualcosa in iotico — chiese Richat, una studentessa dei corsi di Shevek. — Che effetto fa?

— Lo sai già: Va’ all’inferno! Dannazione!

— Piantala di ingiuriarmi — disse la ragazza, ridacchiando. — Pronuncia una frase completa.

Shevek pronunciò allegramente una frase in iotico. — In realtà non so come si pronunci — aggiunse. — È solo un tentativo.

— E cosa voleva dire?

— Se il passaggio del tempo è un aspetto della coscienza umana, passato e futuro sono funzioni della mente. Da un pre-Sequentista, Keremcho.

— Che strano, pensare a gente che parla senza che si possa capirla!

— Non riescono a capirsi neppure tra loro. Parlano centinaia di lingue diverse, tutti quei pazzi archisti della Luna…

— Acqua, acqua… — disse Bedap, ancora ansante.

— Non c’è acqua — disse Terrus. — Non piove da diciotto decadi. Per essere precisi, 183 giorni. Da quarant’anni non c’era una siccità così lunga ad Abbenay.

— Se continua, dovremo riciclare l’urina, come hanno fatto nell’anno 20. Un bicchiere di piscio, Shevek?

— Non scherzare — disse Terrus. — Camminiamo su un filo. Pioverà a sufficienza? Il raccolto di foglie degli Altipiani del Sud è già perduto. Laggiù non piove da trenta decadi.

Tutti levarono lo sguardo al cielo velato, color dell’oro. Le foglie dentellate degli alberi sotto cui sedevano, alte piante esotiche del Vecchio Pianeta, pendevano polverose dai rami, arricciate dalla siccità.

— Mai più una Grande Siccità — disse Desar. — Moderni impianti desalazione. Evitano.

— Potrebbero contribuire ad alleviarla — disse Terrus.

Quell’anno l’inverno giunse precocemente, freddo e asciutto, nell’emisfero settentrionale. Polvere gelida trasportata dal vento nelle basse, ampie strade di Abbenay. Acqua dei bagni strettamente razionata: sete e fame portavano in seconda posizione la pulizia. Il cibo e i vestiti dei venti milioni di abitanti di Anarres venivano dalle piante di holum, dalle loro foglie, semi, fibre, radici. C’era qualche riserva di tessuti nei magazzini e nei depositi, ma non c’erano mai state grandi riserve di cibo. L’acqua andava alla terra, per tenere vive le piante. Il cielo al di sopra della città era privo di nubi e sarebbe stato chiaro se non fosse stato ingiallito dalla polvere portata dal vento da zone più secche, a sud e ad ovest. A volte, quando il vento soffiava da nord, dai Ne Theras, la caligine gialla si schiariva e lasciava un cielo terso e brillante, di un colore azzurro cupo che s’induriva verso il viola allo zenit.

Takver era gravida. In prevalenza era sonnolenta e benevola. — Io sono un pesce — diceva, — un pesce nell’acqua. Sono all’interno del bambino che è dentro di me. — Ma a volte era sovraccarica di lavoro, o aveva fame a causa della leggera riduzione nella quantità di cibo dei pasti alla mensa. Le donne gravide, al pari dei bambini e dei vecchi, potevano consumare un pasto sovrannumerario al giorno, colazione alle undici, ma spesso Takver la perdeva perché l’orario del suo lavoro non glielo permetteva. Lei poteva perdere un pasto; i pesci delle vasche del suo laboratorio, no. Gli amici spesso le portavano qualcosa che avevano risparmiato dal proprio pasto o che era stato avanzato alla loro mensa, un panino imbottito o un frutto. Ella mangiava ogni cosa con piacere, ma continuava a desiderare dolci, e i dolci erano scarsi. Quando era stanca, era ansiosa e si agitava per un nonnulla; la sua collera si accendeva per una parola.

Verso la fine dell’autunno, Shevek terminò il manoscritto dei Principi della Simultaneità. Lo diede a Sabul per l’approvazione per la stampa. Sabul lo tenne per una decade, due, tre e non disse nulla riguardo ad esso. Shevek gli chiese notizie. Egli rispose che non aveva ancora trovato il tempo di leggerlo, aveva troppo da fare. Shevek attese. Era ormai pieno inverno. Il vento secco soffiava giorno dopo giorno; il terreno era gelato. Ogni cosa pareva giunta a un arresto, un arresto preoccupato, in attesa della pioggia, in attesa della nascita.

La stanza era buia. Le luci si erano appena accese nella città; parevano deboli sotto il cielo grigio, scuro, alto. Takver entrò, accese la lampada, si accoccolò con ancora il soprabito accanto alla grata del calore. — Oh che freddo! Spaventoso. Mi sento i piedi come se avessi camminato su un ghiacciaio, per poco non mi mettevo a piangere per la strada, tanto mi facevano male. Maledetti stivali profittatori! Perché non siamo buoni a fare un paio di stivali decenti? Come mai stai seduto al buio?

— Non so.