— Sei andato alla mensa? Io ho mangiato un boccone mentre tornavo a casa. Ho dovuto fermarmi, le uova di Kukuri si schiudevano, dovevamo togliere i piccoli dalla vasca prima che gli adulti li mangiassero. Hai mangiato?
— No.
— Non fare lo scontroso. Per favore non fare lo scontroso proprio questa sera! Se mi va storta ancora una cosa, mi metto a piangere. Sono stufa di piangere tutto il tempo. Maledetti stupidi ormoni! Vorrei poter avere i bambini come i pesci, deporre le uova, nuotare via, e tutto finisce lì. A meno di nuotare indietro per mangiarli… Non startene seduto come una statua. Non lo sopporto. — Stava già quasi piangendo, accovacciata accanto al soffio di aria calda della grata, mentre cercava di slacciarsi gli stivali con le dita intirizzite. Shevek non disse nulla. — Ma che cosa hai? Non puoi startene lì come un morto!
— Sabul mi ha convocato oggi. Non raccomanderà i Princìpi per la pubblicazione, e neppure per l’esportazione.
Takver smise di lottare con la stringa e si sedette. Guardò Shevek da dietro la spalla. Infine disse: — Che cosa ha detto, esattamente?
— Il commento che ha scritto è sul tavolo.
Takver si alzò, raggiunse il tavolo camminando su uno stivale solo, e lesse il biglietto, piegandosi sul tavolo, con le mani nelle tasche del soprabito.
— «Che la Fisica Sequenziale sia la strada maestra del pensiero cronosofico nella Società Odoniana è un principio mutuamente accettato fin dall’Insediamento d’i Annares. Le divagazioni egoistiche da questa solidarietà di princìpi possono dare come risultato soltanto la sterile tessitura di ipotesi impratiche, prive di utilità sociale organica, oppure la ripetizione delle speculazioni superstizioso-religiose degli scienziati irresponsabili e venduti degli Stati Profittatori di Urras…» Oh, lo sporco profittatore! Il meschino, invidioso, piccolo sputasentenze Odoniane! E manderà questo commento alle Edizioni?
— L’ha già mandato.
Takver si chinò per togliersi lo stivale. Alzò lo sguardo diverse volte in direzione di Shevek, ma non si recò accanto a lui né cercò di toccarlo, e per qualche tempo non disse nulla. Quando infine parlò, la sua voce non era forte e tesa come prima, e riaveva la sua naturale caratteristica robusta, vellutata. — Che cosa conti di fare, Shevek?
— Non c’è niente da fare.
— Stamperemo il libro. Formeremo un gruppo tipografico, impareremo a comporre, lo stamperemo.
— La carta è a razioni minime. Non si stampano cose inessenziali. Solo le pubblicazioni del CDP, finché non saranno salve le piantagioni di holum.
— Allora non puoi cambiare in qualche modo l’esposizione? Camuffare quello che scrivi. Decorarlo con fronzoli Sequenziali. In modo che lo accetti.
— Non puoi camuffare il nero da bianco.
Non gli chiese se fosse possibile aggirare Sabul o scavalcarlo. Nessuno, su Anarres, scavalcava un’altra persona. Non c’erano vie traverse da cui aggirare qualcuno. Se non potevi lavorare in solidarietà con i colleghi, allora lavoravi da solo.
— E se… — Ma subito s’interruppe. Si alzò e portò gli stivali accanto al soffio d’aria calda, ad asciugare. Si tolse il soprabito, andò ad appenderlo, e si mise uno scialle pesante, fatto a mano, sulle spalle. Si sedette sulla predella del letto, brontolando un poco negli ultimi centimetri. Poi alzò lo sguardo su Shevek, seduto di profilo, tra lei e le finestre.
— E se gli offrissi di firmare come co-autore? Come il primo articolo che hai scritto.
— Sabul non metterà mai il suo nome su delle «speculazioni superstizioso-religiose».
— Ne sei certo? Sei certo che non sia proprio ciò che desidera? Sabul sa cos’è, sa cos’hai fatto. Hai sempre detto che è astuto. Sa che ficcherà lui e tutta la sua scuola Sequenziale nel secchio della riciclazione. Ma se invece potesse condividere il credito? Tutto ciò che fa, è egoistico. Se potesse dire che è il suo libro…
Shevek disse con rancore: — Preferirei condividere te con lui, che quel libro.
— Non guardare la cosa sotto questo aspetto, Shevek. È il libro, che è importante… le idee. Ascolta. Noi desideriamo tenere con noi il bambino che nascerà, tenerlo fin dai primi giorni, noi vogliamo amarlo. Ma se per qualche ragione la sua permanenza presso di noi lo facesse morire, se potesse vivere soltanto nell’incubatrice, e noi non potessimo mai vederlo e conoscere il suo nome… se dovessimo fare questa scelta, come ci comporteremmo? Lo faremmo morire per tenerlo tra noi, oppure gli daremmo la vita?
— Non so — rispose lui. Appoggiò la testa fra le mani, strofinandosi dolorosamente la fronte. — Sì, certo. Sì. Ma questo… Ma io…
— Fratello, cuore caro — disse Takver. Serrò i pugni, poi li abbassò sul grembo, senza toccare Shevek. — Non ha importanza il nome scritto sul libro. La gente lo saprà ugualmente. La verità è il libro.
— Io sono quel libro — egli disse. Poi serrò le palpebre, e rimase a sedere immobile. Takver si avvicinò a lui, allora, timidamente, toccandolo con la delicatezza con cui avrebbe toccato una ferita.
All’inizio dell’anno 164, la prima versione, incompleta e drasticamente corretta, dei Princìpi della Simultaneità venne stampata ad Abbenay, con Sabul e Shevek come co-autori. Il CDP stampava soltanto documenti e direttive essenziali, ma Sabul aveva influenza alla divisione Stampa e Informazione del CDP e la aveva convinta del valore propagandistico del libro, su Urras. Urras, egli diceva, si rallegrava della siccità e della possibile carestia di Anarres; l’ultimo arrivo di giornali iotici era pieno di maligne profezie sull’imminente collasso dell’economia Odoniana. Quale confutazione migliore, diceva Sabul, che la pubblicazione di un’importante opera di pensiero puro, «un monumento della scienza», scrisse nel nuovo giudizio, «che s’innalza sulle avversità materiali per dimostrare l’insoffocabile vitalità della Società Odoniana e il suo trionfo sul proprietarismo archista in ogni area del pensiero umano».
Così l’opera venne stampata, e quindici delle trecento copie salirono a bordo del mercantile iotico Pensiero. Shevek non aprì mai una copia del libro stampato. Nel pacco per l’esportazione, tuttavia, egli infilò una copia del manoscritto completo, originale, ricopiata a mano. Una nota sulla copertina pregava di darla al dottor Atro del Collegio della Nobile Scienza dell’Università di Ieu Eun, con gli omaggi dell’autore. Era ovvio che Sabul, il quale doveva dare l’approvazione finale al pacco, avrebbe notato l’aggiunta. Se avrebbe tolto il manoscritto o se lo avrebbe lasciato, Shevek non lo sapeva. Sabul poteva confiscarlo per dispetto; oppure poteva lasciarlo, sapendo che l’edizione evirata da lui preparata non avrebbe avuto sui fisici urrasiani l’effetto desiderato. Non disse nulla del manoscritto a Shevek. Shevek non gliene parlò.
Shevek parlò poco con tutti, quella primavera. Prese un assegnamento volontario, lavoro di costruzione in un nuovo impianto di riciclazione dell’acqua, nel sud di Abbenay, e per la maggior parte del giorno fu occupato a insegnare o al nuovo lavoro. Ritornò ai suoi studi nel campo subatomico, e spesso passò la sera all’acceleratore dell’Istituto o nei laboratori con gli specialisti in particelle. Con Takver e gli amici era tranquillo, taciturno, gentile, e freddo.
Takver divenne molto grossa e cominciò a camminare come una persona che trasportasse un cesto di biancheria largo e pesante. Continuò a lavorare al laboratorio dei pesci finché non ebbe trovato e istruito un’adeguata sostituta, poi si recò a casa e le vennero le doglie, con più di dieci giorni di ritardo rispetto alla data prevista. Shevek arrivò a casa a metà del pomeriggio. — Vai a chiamare la levatrice — disse Takver. — Dille che le contrazioni avvengono a quattro o cinque minuti tra loro, ma non accelerano, e quindi non c’è molta fretta.
Ma egli si affrettò, e quando scoprì che la levatrice era uscita, cadde in preda al panico. Tanto la levatrice quanto il medico dell’isolato erano fuori, e nessuno dei due aveva lasciato un avviso sulla porta per dire dove lo si poteva trovare, come era abitudine. Il cuore di Shevek prese a battere all’impazzata, ed egli cominciò bruscamente a vedere le cose con una terribile chiarezza. Vide che questa mancanza di assistenza era un segno infausto. Egli si era ritirato da Takver a partire dall’inverno, a partire dalla decisione sul libro. Takver era stata sempre più tranquilla, passiva, paziente. Ed egli adesso capiva quella passività: era la preparazione della morte. Era stata lei a ritrarsi da lui, ed egli non aveva cercato di seguirla. Egli aveva osservato soltanto la propria amarezza di cuore, e non aveva mai visto la paura di Takver, o il suo coraggio. L’aveva lasciata sola perché voleva essere lasciato solo, ed ella aveva continuato ad allontanarsi, troppo lontano, sarebbe andata avanti da sola, per sempre.