Corse alla clinica dell’isolato, e vi giunse talmente trafelato e incerto sulle gambe che i medici pensarono che gli fosse venuto un attacco cardiaco. Poi spiegò. Essi inviarono una comunicazione a un’altra levatrice e gli dissero di andare a casa, la compagna avrebbe apprezzato la sua presenza. Tornò a casa, e ad ogni passo cresceva in lui il panico, il terrore, la certezza della perdita.
Ma una volta a casa non poté inginocchiarsi davanti a Takver, chiederle perdono, come avrebbe voluto disperatamente. Takver non aveva tempo per le scene emotive; aveva da fare. Aveva tolto ogni cosa dalla predella del letto, ad eccezione di un lenzuolo pulito, e stava dandosi da fare a partorire un figlio. Non urlava né si lamentava, poiché non provava dolore, ma quando una contrazione arrivava, si tratteneva con il controllo del respiro e dei muscoli, e poi lasciava andare un grande uff di respiro, come una persona che compie uno sforzo terribile per sollevare un grande peso. Shevek non aveva mai visto un lavoro che facesse appello come quello a tutta la forza del corpo.
Non poteva osservare un simile lavoro senza cercare di aiutare. Egli poteva servire come appoggio e come aiuto quando Takver doveva fare leva. Trovarono quasi subito la posizione con un paio di prove, e continuarono in quel modo anche dopo l’arrivo della levatrice. Takver partorì in posizione eretta, accovacciata, con la faccia premuta contro la coscia di Shevek, le mani strette alle sue braccia. — Ecco fatto — disse tranquillamente la levatrice, al di sotto dell’ansito pesante, simile a quello di un muratore, del respiro di Takver, e afferrò la creatura scivolosa, ma chiaramente umana, che era apparsa. Seguì un fiotto di sangue, e una massa amorfa di qualcosa che non era umano, che non era vivo. Il terrore dimenticato si riaffacciò nella mente di Shevek, raddoppiato. Era la morte, ciò che vedeva. Takver gli aveva lasciato le braccia e si era rannicchiata ai suoi piedi, esausta. Egli si chinò su di lei, rigido per l’orrore e il rimorso.
— Fatto — disse la levatrice. — Aiutala a spostarsi, in modo che io possa ripulire.
— Voglio lavarmi — disse Takver, debolmente.
— Aiutala, aiutala a lavarsi. Ci sono dei panni sterili… qui.
— Wew wew wew — disse un’altra voce.
La stanza parve piena di persone.
— Adesso — disse la levatrice, — senti, riportale il bambino, al seno, per aiutare a far cessare l’emorragia. Io voglio mettere questa placenta in frigorifero, alla clinica. Torno tra dieci minuti.
— Dov’è… dov’è…
— Nel lettino! — disse la levatrice, uscendo. Shevek trovò quel letto piccolissimo, che era pronto da quattro decadi in un angolo della stanza, e il bambino neonato che vi stava dentro. In qualche maniera, nell’estremo precipitare degli avvenimenti, la levatrice aveva trovato il tempo di ripulire il neonato e di mettergli perfino un abitino, cosicché pareva meno scivoloso, meno simile a un pesce, di quando lo aveva visto per la prima volta. Il pomeriggio si era rabbuiato con la solita rapidità, la solita assenza di un senso del passaggio del tempo. La lampada era accesa. Shevek sollevò il bambino per portarlo a Takver. Il suo viso era incredibilmente piccolo, con grandi palpebre chiuse, dall’aspetto fragile. — Portalo qui — diceva Takver, — oh, ma sbrigati, fai presto a darmelo.
Lo trasportò per la stanza e con molta cautela lo appoggiò sullo stomaco di Takver. — Ah! — disse lei, piano, con tono di puro trionfo.
— Che cos’è? — chiese dopo un poco, con voce assonnata.
Shevek era seduto al suo fianco, sul bordo della predella. Indagò con attenzione, leggermente sorpreso dalla lunghezza del vestitino in contrasto con l’estrema brevità delle gambe. — Una bambina.
Intanto era ritornata la levatrice, che si aggirava per la stanza mettendo a posto cose. — Avete fatto un ottimo lavoro — disse, a tutt’e due. Essi annuirono debolmente. — Verrò a vedere domattina — disse, uscendo. La bambina e Takver erano già addormentati. Shevek posò la testa accanto a quella di Takver. Era abituato al piacevole odore di muschio della sua pelle. Adesso era cambiato; era divenuto un profumo, pesante e vago, pesante di sonno. Molto delicatamente posò su di lei un braccio, mentre giaceva su un fianco con la bambina contro il petto. Poi, nella stanza pesante di vita, s’addormentò.
Un Odoniano intraprendeva la monogamia esattamente come intraprendere una qualsiasi attività in comune con altre persone, una produzione, un balletto, un lavoro manuale. Il rapporto tra due compagni era una unione liberamente istituita come ogni altra. Finché funzionava, funzionava; se non funzionava, cessava di sussistere. Non era un’istituzione, bensì una funzione. Non aveva altre sanzioni che quella della coscienza personale.
Questo era pienamente in accordo con la teoria sociale Odoniana. La validità delle promesse, anche delle promesse a scadenza indefinita, era profondamente intessuta nel pensiero di Odo; sebbene potesse parere che la sua insistenza sulla libertà di cambiamento invalidasse l’idea di voto o di promessa, in realtà era la libertà a rendere significativa la promessa. Una promessa è una direzione scelta, una auto-limitazione della scelta. Come Odo aveva fatto notare, se non si prende alcuna direzione, se non si va da nessuna parte, non avviene alcun cambiamento. La propria libertà di scegliere e di cambiare non verrà usata, esattamente come se si fosse in una prigione: una prigione di propria costruzione, un labirinto in cui nessuna direzione è migliore di un’altra. Così Odo giunse a vedere la promessa, il pegno, l’idea di fedeltà, come un elemento essenziale nella complessità della libertà.
Molte persone pensavano che questa idea di fedeltà non si applicasse correttamente alla vita sessuale. La femminilità di Odo l’aveva portata, dicevano queste persone, verso il rifiuto della vera libertà sessuale; qui, più che in altri punti, Odo non aveva scritto per gli uomini. E poiché questa obiezione veniva mossa tanto da uomini quanto da donne, si aveva l’impressione che Odo non avesse capito non tanto il mondo maschile, quanto piuttosto tutto un genere o parte dell’umanità, le persone per le quali la sperimentazione è il cuore del piacere sessuale.
Anche se poteva non averle capite, e se probabilmente le considerava deviazioni proprietaristiche dalla norma — dato che la specie umana è, se non una specie a coppie fisse, almeno una specie che trasmette le esperienze alle generazioni successive — Odo tuttavia provvide meglio alle persone dalle abitudini promiscue che non a coloro che tentavano il rapporto duraturo di compagni. Non c’erano leggi, limiti, pene, punizioni o disapprovazioni che riguardassero l’attività sessuale, di qualsiasi tipo essa fosse, ad eccezione della violenza carnale su un bambino o una donna, che probabilmente veniva vendicata sommariamente dai vicini dello stupratore se costui non si rifugiava più che in fretta tra braccia, assai più gentili, di un centro di cura. Ma le molestie sessuali erano estremamente rare in una società in cui la completa soddisfazione era la norma dalla pubertà in poi, e in cui l’unico limite sociale imposto alla vita sessuale era la debole pressione a favore dell’isolamento, una sorta di pudore imposto dalla comunalità della vita.
Dall’altra parte, invece, coloro che sceglievano di formare una coppia di compagni e di continuare tale forma di rapporto, sia omosessuale sia eterosessuale, incontravano problemi ignorati da coloro che si accontentavano dell’attività sessuale che trovavano. Dovevano affrontare non soltanto la gelosia, il possessivismo e le altre malattie della passione a cui l’unione monogamica fornisce un così buon terreno di crescita, ma anche le pressioni esterne dell’organizzazione sociale. Una coppia che sceglieva il rapporto di compagni, lo sceglieva pur sapendo che potevano venire separati in qualsiasi momento dalle esigenze della distribuzione del lavoro.