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DivLab, l’amministrazione della divisione del lavoro, cercava di tenere unite le coppie, e di riunirle, a richiesta, non appena possibile; ma questo non sempre poteva essere fatto, specialmente quando c’erano degli incarichi urgenti, né la gente si aspettava che la Divisione del Lavoro mandasse all’aria intere liste e riprogrammasse calcolatori per cercare di farlo. Per la sopravvivenza, per la prosecuzione della vita, un anarresiano sapeva di dover essere pronto a recarsi dove c’era bisogno di lui, per svolgere il lavoro che doveva essere fatto. Cresceva con la conoscenza che la distribuzione del lavoro era un fattore importante della vita, un’immediata, permanente necessità sociale; mentre invece la coniugalità era una questione personale, una scelta che poteva venire fatta soltanto all’interno della scelta più importante.

Ma quando una direzione viene scelta liberamente e seguita con piena convinzione, può sembrare che ogni cosa contribuisca a rendere più agevole il cammino. Così, la possibilità della separazione, o la sua realtà, spesso avevano l’effetto di rafforzare la lealtà della coppia. Conservare una fedeltà spontanea e genuina in una società che non aveva sanzioni morali o legali nei riguardi dell’infedeltà, e conservarla nel corso di separazioni liberamente accettate che potevano giungere in qualsiasi momento e potevano durare anni, costituiva una sorta di sfida. Ma l’essere umano ama venire sfidato, cerca la libertà nell’avversità.

Nell’anno. 164, molte persone che non l’avevano mai cercato assaggiarono il sapore di questo tipo di libertà, e lo amarono, ne amarono il senso di cimento e di pericolo. La siccità iniziata nell’estate del 163 non trovò sollievo nell’inverno. Con l’estate del 164 cominciarono le privazioni, e la minaccia di disastro se la siccità fosse continuata.

Il razionamento era stretto; le chiamate lavorative erano indispensabili. La lotta per coltivare sufficiente cibo e distribuirlo divenne convulsa, disperata. Eppure la gente non era affatto disperata. Odo aveva scritto: «Un bambino libero dalla colpa della proprietà e dal fardello della competizione economica crescerà con il desiderio di fare ciò che deve essere fatto e la capacità di provare gioia nel farlo. È il lavoro inutile che rabbuia il cuore. La gioia della madre che allatta, dello studioso, del cacciatore fortunato, del buon cuoco, dell’artigiano abile, di chiunque compia un lavoro necessario e lo compia bene… questa gioia duratura è forse la fonte più profonda dell’affetto umano e della socialità intera.» Ci fu una sotterranea corrente di gioia, in tal senso, ad Abbenay quell’estate. Ci fu una felicità di lavorare nonostante la pesantezza del lavoro, una disponibilità a lasciare ogni preoccupazione non appena fosse stato fatto ciò che si poteva fare. La vecchia etichetta della «solidarietà» era ritornata in vita. Si prova esaltazione nello scoprire che il legame è più forte, in fin dei conti, di tutto ciò che lo mette alla prova.

All’inizio dell’estate, il CDP affisse manifesti che suggerivano di ridurre di un’ora la giornata lavorativa, poiché la distribuzione di proteine alle mense era adesso insufficiente per un normale dispendio di energia. L’attività esuberante delle strade cittadine cominciava già ad allentarsi. La gente, uscita presto dal lavoro, si attardava nelle piazze, giocava a bocce nei parchi asciutti, sedeva sulla soglia delle botteghe e attaccava conversazione con i passanti. La popolazione della città era visibilmente diminuita, poiché migliaia di persone si erano offerte volontarie per il lavoro agricolo di emergenza o vi erano state assegnate. Ma la fiducia reciproca alleviava la depressione e l’angoscia. — Ci aiuteremo reciprocamente a superare questo momento — dicevano, serenamente. E scorrevano grandi impulsi di vitalità, proprio sotto la superficie. Quando i pozzi della periferia settentrionale si prosciugarono, condotte temporanee collegate con altri distretti vennero posate da volontari che lavoravano nel loro tempo libero, gente esperta e no, adulti e adolescenti, e il lavoro venne fatto in trenta ore.

Verso la fine dell’estate, Shevek venne assegnato a una leva agricola di emergenza alla comunità di Fonti Rosse, negli altipiani del sud. Con la promessa di un po’ di pioggia caduta nella stagione equatoriale delle tempeste, si cercava di piantare un raccolto di grano di holum e di mieterlo prima che ritornasse la siccità.

Si era già aspettato una assegnazione di emergenza, poiché il suo lavoro di costruzione era finito, ed egli si era elencato come disponibile per le assegnazioni generali di lavoro. Per tutta l’estate non aveva fatto altro che tenere i suoi corsi, leggere, prestare assistenza ogni volta che c’era qualche lavoro volontario da svolgere nel loro isolato o in città, e poi tornare a casa da Takver e dalla bambina. Takver era tornata al laboratorio, soltanto la mattina, dopo cinque decadi. Come madre in allattamento aveva diritto a un supplemento di proteine e di carboidrati alla mensa, ed ogni volta ne approfittava; i loro amici non potevano più dividere con lei cibo fuori razione, non c’era più cibo fuori razione. Takver era magra, ma stava bene, e la bambina era piccola, ma robusta.

Shevek traeva molto piacere dalla bambina. Poiché era affidata a lui la mattina (la lasciavano al nido soltanto quando insegnava o svolgeva lavoro volontario), egli provava quel senso di essere necessario che è il fardello e la ricompensa della condizione di genitore. La bambina, attenta e sensibile, forniva a Shevek un perfetto uditorio per quelle fantasie verbali che egli tendeva sempre a frenare e che Takver sosteneva essere il suo lato folle. Si metteva la bimba sulle ginocchia e le dedicava scombussolate lezioni di cosmologia, spiegandole come il tempo in realtà fosse soltanto lo spazio girato su se stesso, e il cronone fosse l’intestino rovesciato del quanto, e la distanza una delle proprietà accidentali della luce. Dava alla bambina nomignoli stravaganti e sempre diversi, e le recitava ridicole filastrocche: Tempo è un vincolo, Tempo è tirannico, Supermeccanico, Superorganico — POP! — e al pop la bambina balzava di pochi centimetri nell’aria, strillando e agitando i pugni grassi. Entrambi ricevevano grandi soddisfazioni da questi esercizi. Quando ricevette l’assegnamento, fu come una lacerazione. Aveva sperato qualcosa nei pressi di Abbenay, non negli Altipiani del Sud, agli antipodi. Ma insieme con la spiacevole necessità di lasciare Takver e la bambina per sessanta giorni c’era la ferma sicurezza di tornare da loro. Finché l’avesse avuta, non si sarebbe lamentato.

La notte prima della partenza, Bedap venne a mangiare al refettorio dell’Istituto con loro, e tornarono tutti insieme alla stanza. Rimasero seduti a parlare nella notte calda, con la lampada spenta, le finestre aperte. Bedap, che mangiava a una piccola mensa dove i desideri speciali non rappresentavano un fastidio per i cuochi, aveva risparmiato per una decade le sue razioni di bevande speciali e le aveva prese tutte insieme sotto forma di una bottiglia da un litro di succo di frutta. La mostrò con orgoglio: una festa della partenza. Se la passarono in giro e la gustarono fastosamente, schioccando la lingua. — Ricordi — disse Takver, — tutto quel mangiare, la sera prima di lasciare l’Istituto? Ho mangiato nove di quelle frittelle.

— Portavi i capelli corti, allora — disse Shevek, sorpreso dal ricordo, che in precedenza non aveva mai associato a Takver. — Eri tu, no?

— E chi credevi che fosse?

— Accidenti, com’eri giovane a quell’epoca!

— E così tu, sono passati dieci anni da allora. Mi tagliavo i capelli per sembrare diversa e interessante. Mi è servito molto, davvero! — Rise con la sua risata forte e allegra, e subito la soffocò per non svegliare la bambina, addormentata nel lettino dietro il paravento. Nulla però sarebbe riuscito a destare la bimba, una volta addormentata. — Avrei voluto così tanto essere differente. Chissà perché?