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— C’è un momento, verso i vent’anni — disse Bedap, — in cui devi scegliere se essere come tutti gli altri per il resto della vita, oppure rendere virtù le tue particolarità.

— O almeno accettarle con rassegnazione — disse Shevek.

— Shevek ha uno dei suoi attacchi di rassegnazione — disse Takver. — È la vecchiaia che incalza. Dev’essere terribile avere trent’anni.

— Non preoccuparti, tu non sarai rassegnata neppure a novanta — disse Bedap, dandole una pacca sulla schiena. — Ti sei rassegnata al nome della bambina, finalmente?

I nomi di cinque o sei lettere distribuiti dal calcolatore dell’anagrafe centrale, essendo univocamente caratteristici di ciascun essere umano vivente, prendevano il posto dei numeri che altrimenti una società computerizzata avrebbe dovuto attribuire ai suoi membri. Un anarresiano non aveva bisogno di altre identificazioni che del proprio nome. Il nome, pertanto, veniva sentito come una parte importante della propria persona, anche se una persona non poteva sceglierselo più di quanto non si potesse scegliere il naso o la statura. A Takver non piaceva il nome dato alla bambina, Sedik. — Suona come una manciata di sassi in bocca — disse, — non è adatto a lei.

— A me piace — disse Shevek. — Suona come una ragazza alta e sottile, dai capelli lunghi e neri.

— Ma è una ragazza piccola e grassa, con capelli invisibili — osservò Bedap.

— Dalle tempo, fratello! Ascoltate, devo fare un discorso.

— Discorso! Discorso!

— Shhh…

— Perché «shh»? Quella bambina non si sveglierebbe neppure per un cataclisma.

— Stai calmo. Sono emozionato. — Shevek alzò la tazzina di succo di frutta. — Io desidero dire… Desidero dire questo. Sono lieto che Sedik sia nata ora. In un anno duro, in un periodo duro, in cui ci occorre la fratellanza. Sono lieto che sia nata ora, e qui. Sono lieto che sia una di noi, un’Odoniana, nostra figlia e nostra sorella. Sono lieto che sia sorella di Bedap. Che sia sorella di Sabul, perfino di Sabul! Io bevo a questa speranza: che, finché vivrà, Sedik ami le sue sorelle e i suoi fratelli così gioiosamente, così fortemente, come io li amo questa sera. E che venga la pioggia…

Il CDP, il principale utente di radio, telefono e posta, coordinava i mezzi di comunicazione interurbani, così come coordinava i viaggi e le spedizioni tra le città. Non essendoci «affari» su Anarres, nel senso di ricerche di mercato, pubblicità, investimenti, speculazioni e così via, la posta era costituita principalmente di corrispondenza tra le varie federative industriali e professionali, delle loro direttive e i loro bollettini, di quelli del CDP, e di una piccola quantità di lettere private. Vivendo in una società dove ciascuno poteva trasferirsi dove voleva, in ogni momento, un anarresiano tendeva a cercare amici nel luogo in cui abitava, non in quello da cui era venuto via. I telefoni venivano usati raramente all’interno di una comunità: le comunità non erano così grandi. Perfino Abbenay manteneva lo schema regionale nei suoi «isolati», i quartieri semiautonomi entro cui si poteva raggiungere a piedi la persona o la cosa desiderata. Quindi la maggior parte delle telefonate erano interurbane, e passavano attraverso il CDP: le chiamate personali dovevano venire prenotate per posta, oppure non si trattava di vere conversazioni, ma semplicemente di messaggi lasciati ai centri del CDP. Le lettere viaggiavano aperte, non per legge, naturalmente, ma per abitudine. La comunicazione personale a lunga distanza è costosa in tempo e materiali, e poiché l’economia privata e quella pubblica erano la stessa cosa, c’era una certa antipatia nei riguardi delle lettere e delle telefonate inutili. Era un’abitudine frivola; puzzava di isolamento, di egoizzazione. Questo era probabilmente il motivo per il quale le lettere viaggiavano aperte: non avevate il diritto di chiedere a una persona di portare un messaggio che egli non potesse leggere. Una lettera viaggiava su un dirigibile postale del CDP se eravate fortunato, e su un treno di prodotti agricoli se non lo eravate. Alla fine arrivava alla stazione postale della città destinataria, e laggiù si fermava, poiché non c’erano postini, finché qualcuno non diceva al destinatario che c’era una lettera per lui, ed egli passava a prendersela.

Era l’individuo, comunque, a decidere ciò che era necessario e ciò che non lo era. Shevek e Takver si scrissero regolarmente, cirta una volta ogni decade. Egli scrisse:

Il viaggio non è stato male, tre giorni, un treno passeggeri senza soste. È un grosso assegnamento, tremila persone, dicono. Gli effetti della siccità sono molto peggiori, qui. Non però le carenze. Il cibo della mensa è la stessa razione di Abbenay, ma qui danno foglie di gara bollite a tutt’e due i pasti ogni giorno perché ce n’è un’eccedenza locale. Anche noi cominciamo a credere di averne un’eccedenza. Ma è il clima, qui, che è brutto. Qui siamo nella Polvere. L’aria è secca, e il vento soffia sempre. Ci sono brevi piogge, ma meno di un’ora dopo la fine della pioggia il terreno si sgretola e la polvere comincia ad alzarsi. Qui, in questa stagione, è piovuto meno della metà della media degli scorsi anni. Tutti al Progetto hanno le labbra screpolate, il naso che sanguina, gli occhi irritati e la tosse. Tra la gente che vive a Fonti Rosse c’è un mucchio di tosse da polvere. Per i bambini piccoli è particolarmente dura, ne vedo molti con la pelle e gli occhi infiammati. Mi domando se avrei notato la cosa mezzo anno fa. Si diventa più acuti quando si hanno dei figli. Il lavoro è lavoro, e tutti sono amici, ma il vento secco ti stanca. Ieri sera ho pensato ai Ne Theras, e nella sera il suono del vento era come il fruscio del ruscello. Non rimpiangerò questa separazione. Mi ha permesso di vedere che avevo cominciato a dare di meno, come se ti possedessi e tu possedessi me, e non ci fosse altro da fare. In realtà, non ha niente a che vedere con il possesso. La cosa che noi facciamo è affermare l’integrità del Tempo. Dimmi cosa fa Sedik. Nei giorni liberi tengo un corso a gente che me l’ha chiesto; una ragazza è un matematico naturale che raccomanderò all’Istituto. Tuo fratello, Shevek.

Takver gli scrisse:

Sono preoccupata da una cosa molto strana. Le lezioni del terzo trimestre sono state assegnate tre giorni fa, e sono andata a vedere i tuoi turni all’Istituto, ma non era segnata nessuna classe e nessuna aula per te. Pensavo che avessero lasciato fuori il tuo nome per un errore, così sono andata alla Federativa dei Membri e lì mi hanno detto che ti volevano dare la classe di Geometria. Sono allora andata all’ufficio di Coordinamento dell’Istituto da quella vecchia col nasone e lei non sapeva nulla, no, non so nulla, vai all’Ufficio Centrale delle Assegnazioni! Questa è un’assurdità, le ho detto, e sono andata da Sabul. Ma non era negli uffici di Fisica e io non l’ho ancora visto, anche se ci sono già passata altre due volte. Con Sedik che ha un bellissimo cappellino bianco che Tellus le ha fatto all’uncinetto con filo di recupero e ha un’aria spaventosamente seducente. Mi rifiuto di andare a caccia di Sabul nella stanza, o tana da vermi, o quel che è, in Cui abita. Magari è fuori città a fare lavoro volontario, ah, ah! Forse ti conviene telefonare all’Istituto per scoprire che razza di pasticcio abbiano combinato? In realtà sono poi andata all’Ufficio Centrale delle Assegnazioni della Divisione del Lavoro, e non c’erano nuovi posti per te. La gente laggiù era a posto, ma la vecchia col nasone è inefficiente e non dà una mano, e nessuno si interessa di nulla. Bedap ha ragione, abbiamo permesso che la burocrazia si insinuasse tra noi. Per favore, ritorna (con la ragazza genio matematico, se necessario), perché la separazione è istruttiva, d’accordo, ma la tua presenza è l’istruzione che io desidero. Prendo mezzo litro di succo di frutta con razione di calcio ogni giorno perché cominciava a mancarmi il latte e S. piangeva molto. I buoni dottori! Tutta, sempre, T.