Shevek non ricevette mai questa lettera. Aveva già lasciato l’Altipiano del Sud prima che la lettera arrivasse alla stazione postale di Fonti Rosse.
C’erano circa 4000 chilometri da Fonti Rosse ad Abbenay. Un singolo individuo che si fosse trasferito si sarebbe semplicemente limitato a farsi dare un passaggio, poiché tutti i veicoli per il trasporto merci erano disponibili come veicoli passeggeri per tutte le persone che potevano contenere; ma poiché c’erano da ridistribuire al loro regolare assegnamento nel Nordovest circa 450 persone, venne allestito un treno per loro. Era composto di carri passeggeri, o almeno di carri che venivano usati come carri passeggeri per l’occasione. Il meno richiesto era il carro coperto che aveva recentemente trasportato un carico di pesce affumicato. Dopo un anno di siccità, le normali linee di trasporto risultavano insufficienti, nonostante i notevoli sforzi dei lavoratori del trasporto per soddisfare alla domanda. Essi costituivano la più vasta federativa della società Odoniana: auto-organizzata, naturalmente, in gruppi regionali, coordinati da rappresentanti che si incontravano e lavoravano con i CDP locali e centrali. La rete della federativa dei trasporti era efficace in tempi normali e anche in limitate emergenze; era flessibile, adattabile alle circostanze, e gli Addetti ai Trasporti avevano un grande orgoglio professionale e di gruppo. Davano alle locomotive e ai dirigibili nomi come Indomabile, Resistente, Divora-Vento; avevano dei motti — Noi Arriviamo Sempre; Nulla È Troppo! — ma ora che intere regioni del pianeta erano minacciate di carestia immediata se non fosse stato portato cibo da altre regioni, e che occorreva trasportare grandi chiamate d’emergenza di lavoratori, il peso che gravava sui trasporti cominciava a essere troppo. Non c’erano veicoli sufficienti, non c’erano sufficienti persone per condurli. Ogni cosa che la federativa avesse su ruote o in volo venne messa in servizio, e apprendisti, lavoratori in ritiro, volontari e assegnati d’emergenza aiutarono a equipaggiare i furgoni, i treni, le navi, i porti, i cantieri.
Il treno che portava Shevek andava avanti a forza di brevi corse e lunghe attese, poiché tutti i treni che portavano vettovaglie avevano la precedenza su di esso. Poi si fermò totalmente per venti ore. Un ferroviere stanco o inesperto aveva fatto un errore in uno scambio, e c’era un guasto alla linea.
La piccola città dove il treno s’era fermato non aveva cibo fuori razione nelle mense o nei magazzini. Non era una comunità agricola, ma una cittadina industriale in cui si fabbricavano cemento e pomice artificiale, costruita sulla fortunata confluenza di un deposito di calcare e di un fiume navigabile. C’erano degli orti, ma era una città che dipendeva dal trasporto per le provviste alimentari. Se le quattrocentocinquanta persone del treno avessero mangiato, non avrebbero mangiato le cento e sessanta persone locali. Idealmente, avrebbero dovuto condividere tutti, e tutti mangiare a metà e digiunare a metà, insieme. Se ci fossero state sul treno cinquanta, o anche cento persone, la comunità avrebbe fatto loro almeno un’infornata di pane. Ma quattrocentocinquanta? Se ne avessero dato una razione a un numero così elevato di persone, ne sarebbero rimasti privi per giorni. E sarebbe ancora giunto il treno delle provviste, in giorni come quelli? E quanto grano avrebbe portato? Non diedero nulla.
I passeggeri, che quel giorno non avevano mangiato nulla a colazione, dovettero digiunare per sessanta ore. Non consumarono un pasto finché la linea non fu riparata e il loro treno non ebbe percorso altri duecentocinquanta chilometri, fino a una stazione con refettorio rifornito per passeggeri.
Fu la prima esperienza della fame per Shevek. A volte aveva saltato il pasto quando era al lavoro, perché non voleva perdere tempo a mangiare, ma due pasti completi al giorno erano sempre stati disponibili: costanti come l’alba e il tramonto del sole. Non gli era mai occorso di pensare a quel che si poteva provare essendo costretti a farne a meno. Nessuno della sua società, nessuno al mondo, doveva farne a meno.
Mentre diventava sempre più affamato, mentre il treno rimaneva immobile ora dopo ora sul binario laterale, tra una cava butterata e polverosa e un mulino chiuso, egli ebbe scuri pensieri sulla realtà della fame, e sulla possibile incapacità della sua società di superare una carestia senza perdere quella solidarietà che era la sua forza. Era facile dividere quando ce n’era sufficienza, magari il minimo sufficiente, per tutti. Ma quando non ce n’era abbastanza? Allora entravano in gioco la forza; la potenza divenuta diritto; il potere e il suo strumento, la violenza, e il suo alleato più devoto, l’occhio distolto per non vedere.
Il risentimento dei passeggeri nei riguardi degli abitanti della cittadina divenne molto amaro, ma era meno allarmante che non il comportamento degli abitanti stessi: il modo in cui si nascondevano dietro i «loro» muri con la «loro» proprietà, e ignoravano il treno, non gli rivolgevano neppure uno sguardo. Shevek non era l’unico passeggero depresso; una lunga conversazione serpeggiava a fianco dei vagoni fermi, con gente che vi entrava e ne usciva, obiettava e annuiva, tutta sullo stesso tema generale seguito dai suoi pensieri. Venne seriamente proposta una spedizione agli orti della cittadina, venne dibattuta con acrimonia, e sarebbe stata anche eseguita se il treno, finalmente, non avesse emesso il fischio della partenza.
Ma quando poi giunse alla stazione successiva, e tutti poterono consumare un pasto — una mezza forma di pane di holum e una scodella di minestra — la loro amarezza lasciò posto al sollievo. Quando arrivavate alla fine del piatto vi accorgevate che la minestra era molto rada, ma il primo assaggio, il primo assaggio era stato meraviglioso: valeva la pena di digiunare per esso. Tutti furono d’accordo su questo. Risalirono a bordo del treno ridendo e scherzando insieme. Aiutandosi reciprocamente, avevano superato l’avversità.
Un treno di vettovaglie accolse a Monte Equatoriale i passeggeri diretti ad Abbenay e li trasportò per gli ultimi ottocento chilometri. Giunsero in città tardi, in una notte ventosa di primo autunno; le strade erano vuote. Il vento passava in mezzo a loro come un fiume turbolento e secco. Al di sopra dei deboli lampioni, le stelle splendevano di una luce trepida e chiara. Le secche folate dell’autunno e della passione trasportarono Shevek lungo le strade, quasi correndo, per cinque chilometri fino al quartiere settentrionale, solo, nella città oscura. Fece d’un balzo i tre scalini dell’ingresso, corse per il corridoio, giunse alla porta, la aprì. La stanza era buia. Le stelle bruciavano nelle finestre buie. — Takver! — egli disse, e udì il silenzio. Prima di accendere la lampada, laggiù nell’oscurità, nel silenzio, d’improvviso, egli conobbe che cos’è la separazione.
Nulla mancava. Non c’era nulla che potesse mancare. Soltanto Sedik e Takver mancavano. Le Occupazioni di Spazi Inabitati giravano lentamente, luccicando piano, nella corrente d’aria che proveniva dalla porta aperta.
C’era una lettera sul tavolo. Due lettere. Una di Takver. Era concisa: aveva ricevuto un’assegnazione di emergenza al Laboratorio Sperimentale per lo Sviluppo delle Alghe Commestibili, nel Nordest, per un periodo indeterminato. Aveva scritto:
In coscienza non potevo rifiutare ora. Sono andata a parlare con loro, alla Divisione del Lavoro, e ho anche letto il progetto che hanno mandato al reparto Ecologia del CDP, ed è vero che hanno bisogno di me, poiché ho lavorato proprio su questo ciclo alga-ciliato-crostaceo-kukuri. Ho chiesto a DivLab che tu venissi assegnato a Rolny, ma naturalmente non faranno nulla se non lo chiederai anche tu, e se questo non sarà possibile a causa del lavoro all’Istituto, tu non lo farai. Dopotutto se andrà avanti troppo alle lunghe dirò loro di prendersi un altro genetista e tornerò indietro! Sedik sta molto bene e dice già le prime parole. Non durerà a lungo. Tutta, per la vita, la tua sorella, Takver. Oh ti prego vieni se puoi.
L’altra nota era scritta su un minuscolo pezzo di carta: «Shevek, ufficio Fisica al tuo ritorno. Sabul».
Shevek si aggirò infuriato per la stanza. La tempesta, l’impeto che lo aveva spinto lungo le strade, erano ancora in lui. Ma erano arrivati al muro. Non poteva andare più avanti, eppure doveva muoversi. Guardò nell’armadio. C’era soltanto il suo soprabito invernale e una camicia che Takver, che amava i lavori fini, gli aveva ricamato; i pochi abiti di Takver mancavano. Il paravento era ripiegato, e si vedeva il lettino vuoto. Il letto non era fatto, ma la coperta color arancione copriva le lenzuola e il materasso arrotolati. Shevek arrivò di nuovo contro il tavolo, lesse di nuovo la lettera di Takver. I suoi occhi si riempirono di lacrime di collera. Una rabbia di disappunto lo scuoteva, una collera, un presagio.