Non si poteva dare la colpa a nessuno. E questo era il lato peggiore di tutto l’accaduto. C’era bisogno di Takver, c’era bisogno di lei per lavorare contro la fame… la fame di lei, di lui, di Sedik. La società non era contro di loro. Era per loro; era con loro; erano loro.
Ma egli aveva rinunciato al suo libro, e al suo amore, e a sua figlia. A quante cose si può chiedere a un uomo di rinunciare?
— All’inferno! — disse forte. Il pravico non era una buona lingua per imprecare. È difficile imprecare quando il sesso non è una cosa impura e la bestemmia non esiste. — Oh, all’inferno! — ripeté. Accartocciò vendicativamente il piccolo sudicio messaggio di Sabul, e batté le nocche sull’orlo del tavolo, due, tre volte, cercando il dolore nella propria collera. Ma non c’era niente. Non c’era niente da fare, e nessun posto ove andare. Alla fine gli rimaneva soltanto il letto da preparare, e poi mettersi a letto da solo e cercare di dormire, con brutti sogni e senza conforto.
Come primo avvenimento del mattino successivo, Bunub bussò. Egli la accolse sulla porta e non si fece di lato per lasciarla entrare. Bunub era la loro vicina di corridoio; una donna di cinquant’anni, operaia nella fabbrica di Motori per Veicoli Aerei. Takver riusciva sempre a divertirsi di lei, ma Bunub aveva la capacità di fare andare in collera Shevek. Per prima cosa, desiderava la loro stanza. L’aveva chiesta la prima volta che si era resa libera, così diceva, ma l’inimicizia della contabile dell’isolato le aveva impedito di averla. La stanza in cui abitava non aveva la finestra d’angolo, oggetto della sua perenne invidia. Era una stanza doppia, tuttavia, ed ella vi abitava da sola, la qual cosa, considerata la carenza di alloggi, era egoistica; ma Shevek non avrebbe mai perso tempo a disapprovare la donna se non fosse stata lei stessa a costringerlo a forza di lagnanze. Quella donna spiegava, spiegava. Lei aveva un compagno, un compagno per la vita, «proprio come voi due», e qui un sorriso sciocco. Solo, dov’era il compagno? Chissà come, veniva sempre citato al passato. Intanto la doppia stanza era più che giustificata dalla successione di uomini che passavano per la porta di Bunub, un uomo diverso ogni notte, come se lei fosse una ruggente diciassettenne. Takver osservava la processione con ammirazione. Bunub arrivava e le raccontava ogni cosa di quegli uomini, e si lamentava, si lamentava. Il fatto di non avere la camera d’angolo era soltanto una delle sue innumerevoli afflizioni. Aveva una mente che era insieme insidiosa e invidiosa, capace di scoprire il male in ogni cosa e dargli direttamente voce. La fabbrica dove lavorava era una velenosa massa d’incompetenza, favoritismo e sabotaggio. Le riunioni del suo gruppo erano veri e propri manicomi, pieni di insinuazioni vergognose, tutte dirette contro di lei. L’intero organismo sociale si dedicava alla persecuzione di Bunub. Tutte queste cose facevano ridere Takver, a volte incontrollatamente, proprio in faccia a Bunub. — Oh, Bunub, mi fai così ridere! — diceva, e la donna, con i suoi capelli grigi, la bocca sottile e gli occhi bassi, sorrideva debolmente, senza dir nulla, senza per nulla offendersi, e continuava le sue mostruose recite. Shevek sapeva che Takver aveva ragione di ridere di lei, ma non gli riusciva di farlo.
— È terribile — disse la donna, scivolando dietro di lui e recandosi direttamente al tavolo per leggere la lettera di Takver. La prese; Shevek gliela tolse di mano con una rapidità e una calma che la donna non aveva previsto. — Perfettamente terribile. Neppure una decade di preavviso. Soltanto: «Vieni qui! Immediatamente!». E poi dicono che siamo un popolo libero, che dovremmo essere un popolo libero. Che beffa! Rompere una coppia felice in questo modo. Ed è proprio questa la ragione per cui l’hanno fatto, lo sai. Sono contro il legame di compagni, lo puoi vedere ad ogni piè sospinto, danno assegnazioni differenti a ciascuno dei due. È quello che è successo a me e Labeks, esattamente la stessa cosa. Non ritorneremo mai più insieme. No di certo, con tutta la Divisione del Lavoro schierata contro di noi. Oh, il piccolo lettino vuoto. Povera creaturina! Non ha smesso di piangere per queste quattro decadi, giorno e notte. Mi ha tenuto sveglia per ore. Sono le carenze, certo; Takver non aveva abbastanza latte. E poi, mandare una madre in allattamento a un incarico a centinaia di chilometri di distanza così, immagina solo! Non credo che riuscirai a raggiungerla dove l’hanno mandata; dov’è che l’hanno mandata?
— Nordest. Voglio uscire per la colazione, Bunub. Ho fame.
— È proprio tipico come l’hanno fatto mentre eri lontano.
— Che cosa hanno fatto, mentre ero lontano?
— L’hanno mandata via… hanno rotto la coppia. — Leggeva la nota di Sabul, che aveva ridisteso con cura. — Ah, loro sanno quando devono farsi sotto! Suppongo che lascerai questa stanza, ora, no? Non ti permetteranno di tenerne una doppia. Takver parlava di tornare indietro presto, ma era chiaro che cercava soltanto di tenersi su di morale. Libertà, dicono che siamo liberi. Bello scherzo! Sballottati qua e là…
— Oh, accidenti, Bunub, se Takver non avesse voluto l’assegnazione, l’avrebbe rifiutata. Sai anche tu che c’è la minaccia di carestia.
— Be’, mi sono chiesta se non fosse lei che desiderava cambiare. Succede spesso, dopo che arriva un bambino. Io lo pensavo già da tempo, avreste dovuto dare la bambina al nido. E come piangeva. I figli vengono tra compagni. Li tengono legati. È naturale, proprio come dici, che lei volesse cambiare, e che abbia approfittato della prima occasione.
— Non ho detto questo. Vado a colazione. — Uscì, vibrando ancora in cinque o sei punti sensibili che Bunub gli aveva accuratamente ferito. L’orrore di quella donna stava nel fatto che dava voce alle sue paure più meschine. Ora la donna rimase nella stanza, probabilmente per studiarvi il proprio trasferimento.
Aveva dormito troppo, e giunse alla mensa proprio mentre chiudevano le porte. Ancora affamato dopo il viaggio, prese una doppia razione, tanto di pane quanto di minestra. Il ragazzo dietro il banco lo guardò accigliato. In quei giorni nessuno prendeva doppie razioni. Shevek gli restituì lo sguardo accigliato e non disse nulla. Nelle ultime ottanta ore aveva mangiato due scodelle di minestra e un chilo di pane, e aveva il diritto di recuperare ciò che aveva perso: ma che gli venisse un accidente se era disposto a spiegarlo. L’esistenza è la sua stessa giustificazione, il bisogno è diritto. Egli era un Odoniano, il senso di colpa lo lasciava ai profittatori.
Si sedette a un tavolo da solo, ma Desar si unì immediatamente a lui, sorridendo e guardandolo, o meglio, guardando dei punti di fianco a lui con i suoi sconcertanti occhi strabici. — Stato via molto — disse Desar.
— Incarico agricolo. Sei decadi. Come sono andate le cose, qui?
— Magre.
— Diventeranno ancora più magre — disse Shevek, ma senza reale convinzione, poiché egli stava mangiando, e la minestra aveva un gusto straordinariamente buono. Frustrazione, ansia, carestia! dicevano i suoi lobi frontali, sede dell’intelletto; ma il talamo, l’impenitente selvaggio accovacciato nella profonda oscurità del suo cranio, diceva: Cibo ora! Cibo ora! Buono! Buono!
— Visto Sabul?
— No. Sono arrivato tardi ieri notte. — Alzò lo sguardo su Desar e disse, con finta indifferenza: — Takver ha avuto un’assegnazione da carestia; è dovuta partire quattro giorni fa.
Desar annuì, con indifferenza genuina. — Sentito dire. Sentito la riorganizzazione dell’Istituto?
— No. Che succede?