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— A cosa sarebbe servito? — disse Sabul, quasi melodioso nella propria discolpa. — Nessuno vuole nuovi insegnanti. Insegnanti e studenti lavorano fianco a fianco, in lavori di prevenzione della carestia su tutto il pianeta. Ma, naturalmente, questa crisi non durerà. In un anno o giù di lì potremo guardarla dal di fuori, orgogliosi dei sacrifici da noi fatti e del lavoro da noi compiuto, l’uno a fianco dell’altro, ciascuno una parte uguale. Ma ora come ora…

In piedi, rilassato, Shevek fissava dalla finestra piccola e graffiata il cielo spoglio. C’era un prepotente desiderio, in lui, di dire a Sabul, definitivamente, di andare all’inferno. Ma fu un impulso diverso, più profondo, a trovare parole. — In realtà — disse, — hai probabilmente ragione. — Così detto, rivolse un cenno del capo a Sabul e uscì.

Prese un omnibus diretto verso il centro. Aveva ancora fretta, si sentiva incalzato. Seguiva lo schema delle cose, e desiderava giungerne alla fine, giungere al riposo. Si recò agli uffici Centrali d’Assegnazione della Divisione del Lavoro per richiedere un’assegnazione alla comunità dove era andata Takver.

DivLab, con i suoi calcolatori e il suo vasto compito di coordinazione, occupava un’intera piazza; i suoi edifici erano belli, imponenti per la norma anarresiana, con delle linee eleganti e spoglie. All’Interno, l’Assegnazione Centrale era simile a un granaio con un alto soffitto, era piena di gente e di attività, con le pareti ricoperte di avvisi di assegnazione e di informazioni riguardanti il banco o il dipartimento a cui chiedere questo o quello. Mentre Shevek attendeva in una delle code, ascoltò le persone che lo precedevano, un ragazzo di sedici anni e un uomo sulla sessantina. Il ragazzo si offriva volontario per un’assegnazione di prevenzione della carestia. Era pieno di nobili sentimenti, traboccava di fratellanza, desiderio d’avventura, speranza. Era felice di andarsene via da solo, lasciando dietro di sé l’infanzia. Parlava molto, come un bambino, con una voce non ancora abituata ai toni più profondi. Libertà, libertà! suonavano le sue frasi eccitate, ogni parola; e la voce del vecchio la contrastava con il suo brontolio e il suo rimbombo: lo stuzzicava senza però minacciare, lo prendeva in giro senza però disarmarlo. La libertà, la possibilità di andare in qualche luogo e di fare qualche cosa, la libertà era ciò che il vecchio apprezzava e amava nel giovane, anche mentre ne derideva la presunzione. Shevek li ascoltò con piacere. Ponevano fine alla teoria di figure grottesche da lui incontrata nel corso della mattinata.

Non appena Shevek spiegò dove desiderasse andare, l’impiegata fece la faccia preoccupata e si recò a prendere un atlante, che poi aprì sul banco in mezzo a loro. — Guarda qui — disse. Era una donna piccina e brutta con incisivi sporgenti; le sue mani sulle pagine colorate dell’atlante erano svelte e soffici. — Questa è Rolny, vedi, la penisola che sporge nel Nord Temeniano. È soltanto un grosso mucchio di sabbia. Non c’è niente su di essa, ad eccezione dei laboratori marini, laggiù in punta, capisci? Poi la costa è tutta paludi e acquitrini salmastri finché non fai tutto il giro e arrivi ad Armonia… mille chilometri. E ad ovest c’è solo il Montante Costiero. Il punto più vicino a Rolny che potresti raggiungere sono certe cittadine delle montagne. Ma laggiù non hanno chiesto nessuna assegnazione di emergenza; sono autosufficienti. Certo, potresti andarci lo stesso… — aggiunse, in un tono leggermente diverso.

— Troppo lontano da Rolny — disse, osservando la carta e notando nelle montagne del Nordest la piccola cittadina isolata dove Takver era cresciuta, Valle Rotonda. — E al laboratorio marino non hanno bisogno di un custode? Di uno statistico? Di qualcuno che dia da mangiare ai pesci?

— Vado a controllare.

La rete di archivi umani e computerizzati della Divisione del Lavoro era allestita con efficienza mirabile. In meno di cinque minuti l’impiegata trasse l’informazione desiderata dall’enorme massa di dati in ingresso e in uscita, riguardanti ogni lavoro svolto, ogni incarico desiderato, ogni lavoratore richiesto, e le priorità di ciascuno nell’economia generale della società mondiale. — Hanno appena riempito la quota di una chiamata d’emergenza… si tratta della compagna, vero? Hanno trovato tutti coloro che desideravano, quattro tecnici e un pescatore esperto. Personale completo.

Shevek appoggiò i gomiti sul banco e chinò il capo, grattandosi la fronte: un gesto di confusione e di sconfitta nascosto dall’imbarazzo. — Be’ — disse, — non so proprio cosa fare.

— Senti, fratello, quanto tempo dura l’incarico della compagna?

— Indefinito.

— Ma è un lavoro di prevenzione della carestia, no? Non continuerà ad andare avanti per sempre. Non può! Pioverà, quest’inverno.

Egli alzò lo sguardo sul viso onesto, simpatico, preoccupato della propria sorella. Sorrise debolmente, poiché non poteva lasciare senza risposta quel tentativo di dargli una speranza.

— Ritornerete uniti. E intanto…

— Sì. Intanto — egli disse.

La donna attese la sua decisione.

Doveva decidere lui, e le possibilità erano infinite. Poteva rimanere ad Abbenay, e organizzare corsi di fisica se avesse trovato studenti volontari. O recarsi nella Penisola di Rolny e vivere con Takver, sebbene privo di un qualsiasi posto nella stazione di ricerca. Oppure poteva recarsi in qualsiasi posto e non fare altro che muoversi due volte al giorno per andare alla mensa più vicina e farsi nutrire. Poteva fare ciò che gli piaceva.

L’identità delle parole «lavoro» e «gioco» in pravico aveva, naturalmente, un forte significato etico. Odo aveva visto il pericolo che sorgesse un rigido moralismo dall’uso della parola «lavoro» nel suo sistema analogico: le cellule devono lavorare insieme, il lavoro svolto da ciascun elemento e così via. Cooperazione e funzione, i due concetti fondamentali della Analogia, implicavano lavoro. Odo aveva visto la trappola morale. «Il santo non è mai troppo indaffarato» ella aveva detto, forse con una punta di tristezza.

Ma le scelte di un essere sociale non sono mai compiute da lui solo.

— Be’ — disse Shevek, — sono appena arrivato da un’assegnazione di prevenzione della carestia. C’è qualche altra cosa simile che occorra fare?

L’impiegata gli rivolse un’occhiata da sorella maggiore, d’incredulità e insieme di perdono. — Ci sono circa settecento chiamate Urgenti affisse in giro per la sala — disse. — Quale preferisci?

— Nessuna che richieda matematici?

— In prevalenza agricoltori e operai specializzati. Hai fatto studi di ingegneria?

— Poca roba.

— Be’, allora c’è la coordinazione del lavoro. Certamente ci vuole una testa abituata alle cifre. Ti va questo?

— D’accordo.

— È nel Sudovest; nella Polvere, lo sai.

— Sono già stato nella Polvere altre volte. E poi, come hai detto tu, un giorno pioverà…

Ella annuì, sorrise e batté a macchina sulla sua scheda Div-Lab: DA Abbenay, N.O., Ist. Centr. Scienze, A Gomito, S.O., coord. lav., fosfatificio N. 1: INCAR. EMGZA: 5.1.3.165-indefinito.

CAPITOLO 9

Shevek venne destato dalle campane della torre della cappella, che suonavano la Prima Armonia per annunciare le funzioni religiose del mattino. Ciascuna nota fu per lui come un pugno alla nuca. Era talmente pieno di nausea, e tremante, che non riusciva a rimanere seduto sul letto che per brevi periodi. Infine riuscì a trascinarsi nella stanza da bagno e a fare un lungo bagno freddo, che servì ad alleviargli il mal di capo; ma continuò a sentire l’intero suo corpo come una cosa estranea: a sentirlo, inesplicabilmente, come una cosa vile. Quando ritornò nuovamente in grado di pensare, si affacciarono alla sua mente frammenti e istanti della sera precedente, scene vivide e prive di significato del ricevimento a casa di Vea. Cercò di non pensarvi, ma in breve si accorse di non poter pensare ad altro. Ogni cosa, tutto divenne vile. Si sedette alla scrivania e rimase a sedere immobile, assolutamente miserabile, e a fissare nel vuoto, per più di mezz’ora.