Si era trovato in imbarazzo abbastanza spesso, e si era accorto molte volte di avere fatto la figura dello scemo. Da giovane aveva sofferto della sensazione che gli altri lo ritenessero strambo, diverso da loro; in anni successivi aveva sperimentato, dopo averla deliberatamente invitata, la collera e il disprezzo di molti suoi colleghi anarresiani. Ma non aveva mai accettato veramente, realmente, il loro giudizio. Non si era mai vergognato di se stesso.
Non sapeva che la paralizzante umiliazione che provava era una conseguenza chimica del fatto di essersi ubriacato, al pari del mal di testa. Né la conoscenza di questo particolare avrebbe contato molto per lui. La vergogna — la sensazione di essere una cosa vile, il senso di distacco da sé — fu una rivelazione. Egli vide con una nuova chiarezza, una chiarezza spaventosa; e vide molto più in là di quei ricordi incoerenti della sera passata in casa di Vea. Non era stata soltanto la povera Vea a tradirlo. Non era stato soltanto l’alcool che aveva cercato di vomitare; era stato tutto il pane ch’egli aveva mangiato su Urras.
Appoggiò i gomiti sul piano della scrivania e si prese la testa tra le mani, premendo sulle tempie: la posizione rannicchiata del dolore; poi osservò la propria vita alla luce della vergogna.
Su Anarres egli aveva scelto, sfidando le attese della propria società, di fare il lavoro che si sentiva individualmente chiamato a fare. Fare quel lavoro era ribellarsi: rischiare la persona per amore della società.
Qui su Urras, quell’atto di ribellione era un lusso, era indulgere alle proprie passioni. Essere un fisico su Urras equivaleva a servire non la società, non l’umanità, non la verità, bensì lo Stato.
Nella sua prima sera in quella stanza, egli aveva domandato loro, in tono di sfida e di curiosità: - Che cosa intendete fare di me? — Ed egli sapeva, adesso, che cosa avevano fatto di lui. Chifoilisk gli aveva detto la semplice realtà. Essi lo possedevano. Aveva pensato di poter mercanteggiare con loro: un’idea estremamente ingenua, da anarchico. L’individuo non può mercanteggiare con lo Stato. Lo Stato non riconosce altra moneta che il potere: e batte la moneta da sé.
Vedeva ora — nei particolari, un episodio dopo l’altro, fin dall’inizio — di avere commesso un errore nel venire su Urras; il suo primo grosso errore, e un errore che probabilmente gli sarebbe durato per il resto della vita. Una volta visto ciò, una volta riesaminate tutte le prove che aveva rimosso e negato per mesi (e per farlo gli occorse un lungo tempo, seduto immobile alla scrivania) e giunto alla ridicola e abominevole ultima scena con Vea, e rivissuta anche quella, e sentita la propria faccia diventare rovente e le orecchie fischiare: a questo punto, tutto terminò. Anche in quella sua postalcolica valle di lacrime, egli non provava alcun senso di colpa. Era tutto finito, ora, e ciò a cui doveva pensare era: che cosa doveva fare, adesso? Essendosi chiuso in prigione, come poteva agire da uomo libero?
Non era disposto a fare fisica per i politici. Questo era chiaro, ormai.
Se avesse cessato di lavorare, lo avrebbero lasciato andare a casa?
A questo pensiero, trasse un lungo respiro e sollevò la testa, fissando, senza vederlo, il panorama verde illuminato dal sole fuori della finestra. Per la prima volta si era concesso di pensare al ritorno a casa come a una genuina possibilità. Quel pensiero minacciò di abbattere le saracinesche e di sommergerlo di desiderio incalzante. Parlare pravico, parlare con amici, vedere Takver, Pilun, Sedik, toccare la polvere di Anarres…
Non l’avrebbero lasciato partire. Non aveva ancora pagato il prezzo del viaggio. Ed egli stesso non poteva concedersi di andare: di rinunciare, scappare via.
Seduto alla scrivania, avvolto dalla chiara luce del mattino, picchiò le nocche sull’orlo del tavolo nettamente e seccamente, due, tre volte; il suo volto era calmo e pareva pensoso.
— Dove vado? — disse forte.
Un colpo alla porta. Efor entrò con il vassoio della colazione e i giornali del mattino. — Venuto alle sei come sempre, ma ancora dormiva — osservò, posando il vassoio con mirabile destrezza.
— Mi sono ubriacato, ieri sera — disse Shevek.
— Bellissimo finché dura — disse Efor. — Questo è tutto, signore? Bene — e uscì con la stessa destrezza, rivolgendo sulla soglia un inchino a Pae, che era entrato mentre egli usciva.
— Non intendevo piombare nel bel mezzo della colazione! Mentre tornavo dalla cappella, ho pensato di dare un’occhiata.
— Si sieda. Prenda un po’ di cioccolata. — Shevek non sarebbe riuscito a mangiare se Pae non avesse almeno fatto il gesto di mangiare insieme con lui. Pae prese un panino al miele e lo spezzettò su un piattino. Shevek si sentiva ancora un po’ scosso, ma aveva fame, e si dedicò alla colazione con gusto. Pae parve trovare più arduo del normale dare inizio alla conversazione.
— Riceve ancora quella robaccia? — chiese infine, in tono divertito, toccando i giornali ripiegati che Efor aveva messo sulla tavola.
— Li porta Efor.
— Li porta lui?
— Gliel’ho chiesto io — disse Shevek, adocchiando Pae: un’occhiata brevissima, esplorativa. — Aumentano la mia comprensione del vostro paese. Mi interessano le vostre classi inferiori. Quasi tutti gli anarresiani venivano dalle classi inferiori.
— Sì, certo — disse l’altro, con un’aria rispettosa e un cenno d’assenso. Mangiò un pezzetto di pane al miele. — Mah, dopotutto, penso che potrei prendere una tazza di cioccolata — disse, e suonò il campanello posato sul vassoio. Efor apparve alla porta. — Un’altra tazza — disse Pae, senza voltarsi. — Be’, signore, desideravamo portarla in giro ancora qualche volta, adesso che il tempo ritorna bello, per mostrarle altre zone del paese. O anche una visita all’estero, magari. Ma questa maledetta guerra ha messo la parola fine ai nostri progetti, temo.
Shevek guardò i titoli del giornale in cima alla pila: A-IO, THU SI SCONTRANO PRESSO CAPITALE BENBILI.
— C’erano notizie più recenti per televisione — disse Pae. — Abbiamo liberato la capitale. Il Generale Havevert sarà reintegrato.
— Allora, la guerra è finita?
— Non ancora, poiché il Thu tiene ancora le due province orientali.
— Capisco. Dunque, il vostro esercito e quello del Thu si combatteranno nel Benbili. E non qui?
— No, no. Sarebbe una pazzia che ci invadessero, o che noi li invadessimo. Abbiamo superato quel tipo di barbarie che portava ogni volta la guerra nel cuore di stati altamente civilizzati! L’equilibrio del potere viene conservato da questo tipo di azioni di polizia. Comunque, noi siamo ufficialmente in guerra. E tutte le solite noiose restrizioni ritorneranno in effetto, temo.
— Restrizioni?
— La segretezza di tutte le ricerche compiute nel Collegio della Nobile Scienza, per esempio. Niente d’importante, comunque, soltanto un timbro governativo. E a volte un ritardo nella pubblicazione di qualche articolo, quando i pezzi grossi pensano che sia pericoloso perché non lo capiscono!… E gli spostamenti saranno un po’ limitati, specialmente per lei e gli altri stranieri presenti tra noi, temo. Finché durerà lo stato di guerra, lei non dovrebbe lasciare l’area universitaria, penso, senza il permesso del Cancelliere. Ma non ci badi. Posso farla uscire quando desidera, senza farle fare tutta la tiritera.
— Lei tiene le chiavi — disse Shevek, con un sorriso ingenuo.
— Oh, sono un assoluto specialista in questo genere di cose. Mi piace aggirare le leggi e far fesse le autorità. Forse sono per natura un anarchico, eh? Dove diavolo s’è cacciato quel vecchio rimbambito, lui e la mia tazza?
— Per prenderla, deve scendere fino alle cucine.
— Be’, non dovrebbe metterci mezza giornata. Va be’, non ho voglia di aspettare. Non voglio portarle via quanto le resta del mattino. Tra l’altro, ha visto l’ultimo Bollettino della Fondazione per le Ricerche Spaziali? Hanno presentato i piani di Reumere per l’ansible.
— Che cos’è l’ansible?
— È quel che lui chiama uno strumento di comunicazione istantanea. Dice che se i temporalisti… e qui si riferisce a lei, naturalmente… tirassero soltanto fuori le equazioni dell’inerzia temporale, gli ingegneri… che sarebbe lui… potrebbero costruire il maledetto apparecchio, provarlo, e così, per inciso, dimostrare la validità della teoria, nel giro di pochi mesi o poche settimane.