— Gli ingegneri sono già di per se stessi una dimostrazione dell’esistenza della reversibilità causale. Vede come Reumere ha già costruito il suo effetto prima che io gli abbia fornito la causa. — Sorrise di nuovo, ma questa volta in modo assai meno ingenuo. Quando Pae si fu chiuso la porta alle spalle, Shevek si alzò di scatto. — Sporco bugiardo profittatore! — esclamò in pravico, livido di rabbia, con le mani serrate a pugno per non cedere alla tentazione di afferrare qualcosa e scagliarlo contro Pae.
Entrò Efor, portando un vassoio con una tazza e un piattino. Si arrestò sulla soglia, con uno sguardo d’apprensione.
— Non è niente, Efor. Pae… Non voleva più la tazza. Puoi portare via tutto.
— Benissimo, signore.
— Senti. Non vorrei visite, per un certo periodo. Puoi tener fuori la gente?
— Molto facilmente, signore. Nessuno in particolare?
— Sì, lui. E tutti. Di’ che lavoro.
— Sarà lieto di saperlo, signore — disse Efor, e le sue rughe si sciolsero per un istante in una smorfia maliziosa; poi, con familiarità rispettosa: — Faccio passare nessuno che lei non vuole — e infine, con proprietà di linguaggio e tono ufficiale: — Grazie, signore, e felice giornata a lei.
Il cibo, e l’adrenalina, avevano fatto svanire la paralisi di Shevek. Cominciò a passeggiare su e giù per la stanza, nervoso e inquieto. Voleva fare qualcosa. Ormai aveva perso quasi un anno senza fare nulla, oltre che rendersi ridicolo. Era ora che facesse qualcosa.
Dunque, per fare che cosa, era venuto su Urras?
Per fare della fisica, per asserire, con il suo talento, un diritto di ogni cittadino di ogni società: il diritto di lavorare, di venire mantenuto mentre lavorava, e di condividere il prodotto con tutti coloro che lo desideravano. Il diritto di ogni Odoniano e di ogni uomo libero.
I suoi ospiti benevoli e protettivi gli permettevano di lavorare, e lo mantenevano mentre lavorava, d’accordo. Il guaio veniva nella terza parte della cosa. E neppure lui era ancora arrivato a quello stadio. Non poteva condividere ciò che non possedeva.
Ritornò alla scrivania, si sedette e prese un paio di ritagli di carta fittamente vergati che teneva nella tasca meno accessibile, meno usata, dei suoi calzoni stretti ed eleganti. Allargò con le dita i due ritagli e cominciò a osservarli. Gli venne in mente ch’egli stava diventando come Sabuclass="underline" scriveva molto piccolo, abbreviato, su pezzetti di carta. Ora sapeva perché Sabul lo facesse: Sabul era possessivo, tendeva a nascondere, a celare. Quello che su Anarres era psicopatia, su Urras era un comportamento razionale.
Di nuovo Shevek tornò a sedersi immobile, con la testa china, e a studiare i due piccoli pezzi di carta su cui aveva annotato alcuni punti essenziali della Teoria Temporale Generale, fin dove arrivava.
Per i tre giorni successivi sedette alla scrivania e fissò i due pezzetti di carta.
A volte si alzava e camminava per la stanza, o scriveva qualcosa, o usava il calcolatore da tavolo, o chiedeva a Efor di portargli qualcosa da mangiare o si stendeva sul letto e cadeva addormentato. Poi tornava a sedersi alla scrivania.
La sera del terzo giorno era seduto, tanto per cambiare, sulla panca di marmo accanto al fuoco. S’era seduto su quella panca la prima sera ch’era entrato in quella stanza, in quella graziosa cella di prigione, e di solito andava a sedere laggiù quando aveva visite. In quel momento non aveva visite, ma pensava a Saio Pae.
Come tutti i cercatori di potere, Pae era sorprendentemente miope. La sua mente aveva qualcosa di frivolo, di abortivo; le mancavano profondità, affetto, immaginazione. Era, in effetti, uno strumento ben primitivo. Eppure aveva delle reali potenzialità, che, sebbene deformate, non erano andate perdute. Pae era un fisico molto astuto. O, più esattamente, era molto astuto nelle cose che riguardavano la fisica. Non aveva mai fatto nulla di originale, ma il suo opportunismo, il senso innato che gli faceva indovinare dove potesse trovarsi un vantaggio, lo portavano ogni volta al campo più promettente. Aveva il fiuto per dove mettersi al lavoro, esattamente come lo aveva Shevek, e Shevek rispettava questo fiuto tanto in lui quanto in se stesso, poiché esso costituisce per uno scienziato un attributo di singolare importanza. Era stato Pae a dare a Shevek il libro tradotto dalla lingua della Terra, il simposio sulla teoria della Relatività, le cui idee, negli ultimi tempi, erano giunte a occupare sempre di più la sua mente. Era possibile che, dopotutto, fosse venuto su Urras soltanto per incontrare Saio Pae, il suo nemico? Che fosse venuto a cercarlo, sapendo di poter ricevere dal proprio nemico ciò che non poteva ricevere dai suoi amici e fratelli, ciò che nessun anarresiano poteva dargli: la conoscenza di qualcosa di forestiero, di esterno: ricevere delle nuove…
Dimenticò Pae. Pensò al libro. Non avrebbe saputo dire con chiarezza neppure a se stesso che cosa, esattamente, egli avesse trovato così stimolante nel libro. Buona parte della fisica in esso contenuta era, in fin dei conti, arretrata; i metodi erano farraginosi, e l’atteggiamento di quegli stranieri, talvolta, del tutto antipatico. I Terrestri erano stati degli imperialisti intellettuali, dei gelosi costruttori di muri. Perfino Ainsetain, colui che aveva dato origine alla teoria, si era sentito in dovere di avvertire che la sua fisica non abbracciava altro modello che quello fisico, e che non si doveva ritenere che vi fossero compresi il metafisico, il filosofico e l’etico. La qual cosa, naturalmente, era superficialmente vera; eppure egli aveva usato il numero, il ponte tra il razionale e il percepito, tra la psiche e la materia. «Il Numero, l’Indisputabile» come l’avevano chiamato gli antichi fondatori della Nobile Scienza. Impiegare la matematica in questo senso equivaleva a impiegare il modello che precedeva tutti gli altri e ad essi conduceva. Ainsetain l’aveva saputo; con accattivante cautela aveva ammesso ch’egli credeva che la sua fisica descrivesse veramente la realtà.
Stranezza e familiarità: in ciascun movimento del pensiero Terrestre, Shevek trovò questa combinazione, e ne fu costantemente affascinato. E provò simpatia: anche Ainsetain aveva cercato una teoria unificante dei campi. Dopo avere spiegato la forza di gravità come una funzione della geometria dello spaziotempo, egli aveva cercato di estendere la sintesi fino a includere le forze elettromagnetiche. Non c’era riuscito. Già nel corso della sua vita, e per molti decenni dopo la sua morte, i fisici del suo mondo si erano allontanati dai suoi tentativi e dai suoi fallimenti, per dedicarsi alle magnifiche incoerenze della teoria quantistica e alla ricca messe tecnologica dei suoi risultati, e per concentrarsi infine sul modello tecnologico in modo talmente esclusivo da arrivare a un punto morto, una catastrofica mancanza d’immaginazione. E tuttavia la loro intuizione originaria era giusta: al punto in cui erano, il progresso era da cercare nell’indeterminatezza che il vecchio Ainsetain si era rifiutato di accettare. E il suo rifiuto era stato ugualmente giusto… a lunga scadenza. Solamente, gli erano mancati gli strumenti per dimostrarlo: le variabili di Saeba e le teorie della velocità infinita e della causa complessa. Il suo campo unificato esisteva, nella fisica Cetiana, ma esisteva in base a condizioni ch’egli forse non sarebbe stato disposto ad accettare; la velocità della luce come fattore limite era essenziale alle sue grandi teorie. Entrambe le sue Teorie della Relatività erano altrettanto belle, altrettanto valide, e utili, come sempre, anche dopo i secoli trascorsi, eppure dipendevano da una ipotesi che non poteva essere dimostrata vera, e che anzi, poteva essere, ed era stata dimostrata, in talune condizioni, falsa.
Ma una teoria in cui tutti gli elementi fossero dimostrabilmente veri non era una semplice tautologia? Nella regione dell’indimostrabile, o perfino del confutabile, giaceva l’unica possibilità di spezzare il cerchio e di progredire.