— Avresti potuto imparare a fare il medico, nell’esercito? — chiese Shevek. La conversazione continuò. Era difficile per Shevek seguirla, sia come linguaggio, sia come sostanza. Gli venivano riferite cose di cui non aveva esperienza. Non aveva mai visto un topo, o una caserma, o un manicomio, o un ospizio di mendicità, o un negozio di prestiti su pegno, o un’esecuzione capitale, o un ladro, o una casa d’affitto, o un esattore della pigione, o un uomo che voleva lavorare e non trovava lavoro da compiere, o un bambino morto in un rigagnolo. Tutte queste cose comparivano nei ricordi di Efor come fatti abituali o come abituali orrori. Shevek dovette mettere a prova la propria immaginazione e fare ricorso ad ogni briciola di conoscenza di cui disponeva su Urras, per capirle. Eppure gli erano familiari in un modo diverso da ogni altra cosa da lui finora vista su Urras, ed egli ne sapeva il motivo.
Questa era la Urras che gli era stata mostrata a scuola, su Anarres. Era il mondo da cui i suoi antenati erano fuggiti, preferendo la fame e il deserto e l’esilio senza fine. Questo era il mondo che aveva formato la mente di Odo e l’aveva incarcerata otto volte per averne parlato. Questa era la sofferenza umana in cui affondavano le radici gli ideali della sua società, il terreno da cui scaturiva.
Non era la «Urras reale». La dignità e la bellezza della stanza in cui egli ed Efor si trovavano erano altrettanto reali quanto lo squallore in cui era nato Efor. Per Shevek, il compito di un pensatore non era quello di negare una realtà a spese dell’altra, ma di includere e di collegare. Non era un compito facile.
— Mi sembra di nuovo stanco, signore — disse Efor. — Meglio riposare.
— No, non sono stanco.
Efor lo studiò per un momento. Quando Efor svolgeva funzione di servitore, la sua faccia solcata di rughe, completamente rasata, era totalmente priva di espressione; nel corso della precedente ora, Shevek l’aveva vista passare attraverso straordinari cambiamenti di asprezza, ironia, cinismo e dolore. Al momento la sua espressione era comprensiva benché distaccata.
— Diverso da tutto questo, il posto da dove viene lei, no? — disse Efor.
— Molto diverso.
— Nessuno è mai senza lavoro, lassù.
C’era un debole tono d’ironia, o forse di domanda, nella sua voce.
— No.
— E nessuno ha fame?
— Nessuno ha fame mentre un altro mangia.
— Ah.
— Ma siamo stati affamati. Abbiamo patito a lungo la fame. C’è stata una carestia, devi sapere, otto anni fa. Ho conosciuto una donna, a quell’epoca, che ha ucciso il figlio, perché non aveva latte, e non c’era nient’altro, nient’altro da dargli. Non è tutto… tutto latte e miele su Anarres, Efor.
— Non ne dubito affatto, signore — disse Efor, con uno dei suoi bizzarri ritorni alla forma elegante. Poi disse con una smorfia, mostrando i denti: — Comunque, laggiù non c’è nessuno di loro!
— Loro?
— Sì, signor Shevek. Quelli che lei ha nominato una volta. I padroni.
La sera successiva, Atro passò a trovarlo. Pae doveva essere stato di vedetta, poiché qualche minuto dopo che Efor ebbe fatto entrare l’anziano studioso, anch’egli giunse, come se si fosse trovato da quelle parti per caso, e chiese con affascinante partecipazione notizie sull’indisposizione di Shevek. — Lei ha lavorato troppo nelle ultime settimane, signore — disse. — Non dovrebbe stancarsi così. — Non si sedette, e si accomiatò molto presto: la vera anima della urbanità. Atro continuò a parlare della guerra nel Benbili, che stava diventando, come la mise lui, «un’operazione su grande scala».
— Il popolo di questo paese, approva la guerra? — Shevek chiese, interrompendo un discorso di strategia. Lo rendeva perplesso l’assenza di giudizi morali, nei giornali popolari, sull’argomento. Avevano lasciato il tono retorico ed eccitato, ed ora le loro parole, frequentemente, erano le stesse dei bollettini televisivi emanati dal governo.
— Approvarla? Non penserai che siamo pronti a gettarci per terra e a lasciare che i maledetti thuviani marcino sopra di noi? La nostra condizione di potenza mondiale è in ballo!
— Ma intendo il popolo, non il governo. Il… il popolo che deve combattere.
— Che cosa vuoi che sia, per loro? Sono abituati alla coscrizione di massa. È la loro funzione, mio caro amico! Combattere per il loro paese. E, lasciamelo dire, non c’è miglior soldato al mondo che il soldato iotico, una volta che si sia abituato a prendere ordini. In tempo di pace può fare grandi parole sentimental-pacifistiche, ma il suo coraggio è sempre lì, pronto a mostrarsi. Il soldato semplice è sempre stato la nostra massima risorsa come nazione. È così che siamo diventati la potenza che siamo.
— Arrampicandovi su una catasta di bambini morti? — disse Shevek, ma la collera, o, forse, un’inconfessata riluttanza a ferire i sentimenti del vecchio scienziato, gli fece tenere bassa la voce; e Atro non lo udì.
— No — continuava a dire Atro, — troverai che l’animo del popolo è saldo come l’acciaio, quando il paese è minacciato. Sì, alcuni provocatori a Nio e nelle città industriali fanno chiasso tra una guerra e l’altra, ma è grande vedere come il popolo faccia quadrato quando la bandiera è in pericolo. Tu non lo crederai, lo so. Il guaio dell’Odonianesimo, lo sai, mio caro amico, è che è femmineo. Esso, semplicemente, non include il lato virile della vita. «Sangue, acciaro e fulgor di battaglia», come dice l’antico poeta. Non capisce il coraggio… l’amore per la bandiera.
Shevek rimase in silenzio per un istante, poi disse, gentilmente: — Questo può essere vero, in parte. Voglio dire, non abbiamo bandiere.
Quando Atro se ne fu uscito, Efor entrò per ritirare il vassoio del pranzo. Shevek lo fermò. Gli andò vicino, dicendo: — Scusami, Efor — e posò sul vassoio una striscia di carta. Su di essa aveva scritto: «C’è un microfono in questa stanza?».
Il servitore chinò il capo e lesse, lentamente, poi alzò lo sguardo su Shevek e gli diede una lunghissima occhiata, da vicino. Quindi i suoi occhi si spostarono per un attimo verso il caminetto.
«Stanza da letto?» chiese Shevek, con lo stesso sistema.
Efor scosse il capo, posò il vassoio e seguì Shevek nella camera da letto. Chiuse la porta dietro di sé con l’assenza di rumore caratteristica di un buon servitore.
— Notato il primo giorno, spolverando — disse, con un sogghigno che trasformò le sue rughe in rigidi solchi.
— Non ce ne sono, qui dentro?
Efor alzò le spalle. — Mai visto nessuno. Potremmo aprire l’acqua, signore, come nelle storie di spie.
Passarono avanti, raggiungendo il magnifico tempio d’oro e d’avorio del cesso. Efor aprì i rubinetti e poi diede un’occhiata alle pareti. — No — disse. — Non credo. E gli occhi spia li potrei vedere. Trovati quando lavoravo per uno di Nio, una volta. Se li vedi una volta non ti scappano più.
Shevek prese un altro pezzo di carta dalla tasca e la mostrò a Efor. — Sai da dove provenga?
Era il messaggio che aveva trovato nel soprabito: «Unisciti a noi tuoi fratelli.»
Dopo una pausa (leggeva lentamente, muovendo le labbra chiuse), Efor disse: — Non so da dove proviene.
Shevek rimase deluso. Pensava che lo stesso Efor era in una posizione eccellente per far scivolare qualcosa nelle tasche del suo «padrone».
— No, so da chi viene. In un certo senso.
— Chi? Come posso raggiungerli?
Altra pausa. — Pericolosa faccenda, signor Shevek. — Distolse la faccia e andò ad aumentare il flusso dell’acqua dei rubinetti.
— Non voglio coinvolgerti. Se potessi soltanto dirmi… dirmi dove andare. Cosa dovrei chiedere. Mi basta un nome.
Una pausa ancora più lunga. Il volto di Efor aveva un aspetto tirato, duro. — Non… — cominciò a dire, poi s’interruppe. Poi disse, bruscamente, a voce molto bassa: — Senta, signor Shevek, Dio sa come la vogliono, come abbiamo bisogno di lei, ma senta, lei non ha idea di come sia. Come pensa di nascondersi? Un uomo come lei? Con l’aspetto che ha lei? È una trappola, qui, ma è una trappola dappertutto. Lei può scappare, ma non può nascondersi. Non so cosa dirle. Darle dei nomi, sicuro. Chieda a qualsiasi Niota, le dirà dove andare. Ne abbiamo abbastanza. Dobbiamo avere un po’ d’aria da respirare. Ma se la prendono, la fucilano, come mi sento? Lavoro per lei da otto mesi, sono arrivato ad amarla. Ad ammirarla. Vengono da me tutti i momenti. Io dico: «No. Lasciatelo stare. Una brava persona, non c’entra coi nostri guai. Lasciatelo tornare da dove viene dove la gente è libera. Lasciate che qualcuno sia libero da questa prigione maledetta da Dio dove viviamo!».