— Non posso tornare. Non ancora. Voglio incontrare queste persone.
Efor rimase in silenzio. Forse fu l’abitudine di tutta una vita come servitore, come uno che obbedisce, a farlo annuire, infine, e dire, bisbigliando: — Tuio Maedda, quello che cercate. Strada dei Giochi, nella Città Vecchia. La drogheria.
— Pae dice che non mi è permesso di lasciare la zona universitaria. Mi possono fermare se mi vedono salire sul treno.
— Taxi, magari — disse Efor. — Ne chiamo uno, lei scenda per le scale. Conosco Kae Oimon al posteggio. Ha del buon senso. Ma non so…
— Benissimo. Subito. Pae è appena passato, mi ha visto, pensa che non uscirò di casa perché sono malato. Che ora è?
— Sette e mezza.
— Se parto adesso, ho tutta la notte per trovare dove devo andare. Chiamami il taxi, Efor.
— Le preparo la valigia, signore.
— Una valigia di cosa?
— Le serviranno degli abiti…
— Ho già addosso degli abiti! Vai.
— Non può andar via senza niente — Efor protestò. Era questo a renderlo ansioso e inquieto più di ogni altra cosa. — Ha soldi?
— Oh… già. Devo prenderli.
Shevek era già pronto a uscire; Efor si grattò la fronte, fece faccia triste e severa, ma si recò al telefono del corridoio per chiamare il taxi. Al suo ritorno trovò Shevek accanto alla porta del corridoio, con già addosso il soprabito. — Scenda — disse Efor, di malavoglia. — Kae viene alla porta di servizio, tra cinque minuti. Gli dica di uscire per la Strada del Parco, laggiù non c’è il controllo come alla porta principale. Non passi dalla porta, la fermano di sicuro.
— Sarai punito per questo, Efor?
Entrambi parlavano a bisbigli.
— Io non so che lei è uscito. Domattina, dico che lei non s’è ancora alzato. Dorme. Li terrà lontani un po’.
Shevek lo prese per le spalle, lo abbracciò, gli strinse la mano. — Grazie, Efor!
— Buona fortuna — disse l’uomo, sorpreso. Shevek era già partito.
La costosa giornata con Vea aveva consumato a Shevek la maggior parte del denaro spicciolo, e la corsa in taxi fino a Nio gli richiese altre dieci unità. Scese a una stazione principale della metropolitana, e servendosi della piantina raggiunse con la metropolitana la Città Vecchia, una sezione della città ch’egli non aveva mai visto. La Strada dei Giochi non era riportata sulla piantina, ed egli scese dal vagoncino alla fermata centrale della Città Vecchia. Quando uscì dalla spaziosa stazione di marmo e risalì sulla strada, si arrestò, confuso. Non sembrava affatto Nio Esseia.
Cadeva una pioggia fine, nebbiosa, ed era molto buio; non c’erano lampade stradali. C’erano i lampioni, ma le luci non erano accese, o le lampade erano rotte. Qua e là, da finestre chiuse da scuri, filtravano aloni giallognoli. Più avanti, lungo la strada, veniva della luce da una porta aperta, attorno alla quale oziava un gruppo di uomini, che parlavano forte. Il lastrico della strada, lucido di pioggia, era sporco di pezzi di carta e di rifiuti. Le vetrine dei negozi, a quanto poteva distinguere, erano basse ed erano completamente coperte di pannelli di metallo o di legno, ad eccezione di uno che era stato sventrato dal fuoco ed era vuoto e annerito, con alcune schegge di vetro ancora aderenti alla cornice della vetrina infranta. La gente tirava dritto, ombre frettolose e mute.
Una vecchia donna veniva per la scala dopo di lui, ed egli si voltò per chiederle la strada. Alla luce del globo giallo che contrassegnava l’ingresso della metropolitana, la vide chiaramente in faccia: bianca e segnata, con lo sguardo spento e ostile della stanchezza. Grandi orecchini di metallo le dondolavano sulle guance. Saliva le scale laboriosamente, china per la fatica, o per l’artrite o per qualche deformità della colonna vertebrale. Ma non era vecchia come egli aveva pensato; doveva avere meno di trent’anni.
— Può dirmi dov’è la Strada dei Giochi? — le chiese, balbettando. La donna lo guardò con indifferenza, affrettò il passo quando raggiunse la cima della scala, e si allontanò senza una parola.
Shevek si diresse a casaccio per la strada. L’emozione della decisione improvvisa e della fuga da Ieu Eun si era trasformata in apprensione, in un senso di venire spinto, di essere inseguito. Evitò il gruppo di uomini accanto alla porta: l’istinto lo avvertiva che uno straniero isolato non si doveva avvicinare a quel tipo di gruppo. Quando vide un uomo davanti a lui che camminava da solo, lo raggiunse e gli ripeté la domanda. L’uomo rispose: — Non lo so — e si voltò dall’altra parte.
Non c’era altro da fare che andare avanti. Giunse a un incrocio meglio illuminato, a una strada che si snodava nella pioggia e nella foschia, in entrambe le direzioni, in una triste, opaca vistosità di insegne pubblicitarie luminose. C’erano molti negozi di vino e di prestiti su pegno, e alcuni di essi erano ancora aperti. Nella strada c’erano molte persone, che passavano in fretta davanti a Shevek, o entravano e uscivano dai negozi di vino. Un uomo giaceva per terra, accanto al bordo del marciapiede, con il cappotto tirato fin sopra la testa, steso alla pioggia, addormentato, malato, morto. Shevek lo fissò con orrore, lui e gli altri che passavano senza guardare.
Mentre era fermo, paralizzato, qualcuno si fermò accanto a lui e sollevò la faccia per guardarlo in viso: un uomo di bassa statura, non rasato, dal collo torto, di cinquanta o sessanta anni, con occhi rossi e la bocca senza denti aperta in una risata. Rideva in modo privo di senno dell’uomo grande e atterrito che gli stava davanti, e puntava contro di lui la mano tremolante. — Ma dove li hai presi, tutti quei capelli, eh, eh, dove li hai presi, tutti quei capelli — borbottava.
— Può… mi può dire dov’è la Strada dei Giochi?
— Certo, ci gioco, non gioco, non ho più niente. Se ne hai tu, hai qualcosa per un goccio in una notte fredda? Qualcosa ce l’hai di sicuro.
Si avvicinò. Shevek si ritrasse, vide la mano aperta ma non capì.
— Dai, signore, giochiamo, dammi qualcosa — mormorava l’uomo, senza minacciare e senza supplicare, meccanicamente, con la bocca ancora aperta in un ghigno privo di significato, la mano protesa.
Shevek capì. Si frugò in tasca, trovò il denaro che gli rimaneva, lo cacciò nelle mani del mendicante, e poi, raggelato da una paura che non era paura per se stesso, spinse via l’uomo, che continuava ancora a mormorare e a cercare di afferrarsi al suo cappotto, e si tuffò nella più vicina porta aperta. C’era un’insegna che diceva: «Pegni e Oggetti Usati Ottime Occasioni». All’interno, tra rastrelliere di soprabiti consumati, scarpe, scialli, pentole ammaccate, lampade rotte, piatti spaiati, taniche, cucchiai, perline, cocci e frammenti, ciascun pezzo di rigatteria marcato col suo prezzo, si arrestò e cercò di calmarsi.
— Cerca qualcosa?
Ripeté ancora una volta la richiesta d’informazioni.
Il negoziante, un uomo bruno, alto quasi quanto Shevek, ma curvo e molto magro, lo guardò attentamente. — Cosa vuole andarci a fare?
— Cerco una persona che abita laggiù.
— Da dove viene?
— Devo arrivare laggiù, Strada dei Giochi. È molto distante?
— Da dove viene, signore?
— Vengo da Anarres, dalla Luna — disse Shevek, con ira. — Devo andare nella Strada dei Giochi, adesso, questa sera.
— Ma è proprio lei? Lo scienziato? Che diavolo fa, qui?
— Scappo dalla polizia! E lei vuole dire alla polizia che sono qui, o vuole aiutarmi?
— Dannazione — disse l’uomo. — Dannazione. Senta… — Esitò, fu sul punto di dire qualcosa, poi sul punto di dire qualcosa di diverso; infine disse: — Basta che prosegua — e con lo stesso fiato, sebbene, a quanto pareva, con un completo rovesciamento di mente, aggiunse: — Va bene, chiudo. La porto io. Aspetti. Dannazione!