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Andò a frugare nel retrobottega, spense le luci, uscì con Shevek, abbassò delle serrande di metallo e le chiuse a chiave, mise il lucchetto alla porta, e si avviò a passo svelto, dicendo: — Venga!

Camminarono per venti o trenta isolati, immergendosi nel labirinto di strade tortuose e vicoli che costituiva il cuore della Città Vecchia. La pioggia greve di foschia cadeva ovattata nell’oscurità illuminata in modo discontinuo, e sollevava odore di marcio, di pietra e metallo bagnati. Svoltarono in uno stretto vicolo privo d’illuminazione, tra due alti e antichi edifici da abitazione, il cui piano terreno era tutto costituito di negozi. La guida di Shevek si fermò e bussò alla serranda della vetrina di uno di questi: «V. Maedda, Drogheria e Pasticceria». Dopo un tempo piuttosto lungo, la porta venne aperta. L’uomo del banco dei pegni conferì con una persona all’interno, poi fece un gesto a Shevek, e tutt’e due entrarono. A farli entrare era stata una ragazza. — Tuio è dietro, venga — disse, alzando la testa per fissare Shevek, alla debole luce proveniente da un corridoio. — Ma è proprio lei? — Aveva una voce debole e ansiosa; sorrise in modo strano. — Ma è proprio lei? — ripeté.

Tuio Maedda era un uomo di carnagione bruna, sui quarant’anni, con volto tormentato, intellettuale. Chiuse un’agenda in cui stava scrivendo qualcosa, e si alzò rapidamente in piedi al loro ingresso. Salutò per nome l’uomo dei pegni, ma non distolse lo sguardo da Shevek.

— È venuto da me in negozio a chiedere come si arrivava qua, Tuio. Dice di essere lui, sai, quello di Anarres.

— Ed è proprio lei, eh? — Maedda disse lentamente. — Shevek. E che cosa ci fa, qui? — Fissò Shevek con occhi luminosi, allarmati.

— Cerco aiuto.

— Chi l’ha mandata da me?

— Il primo a cui l’ho chiesto. Non so chi lei sia. Gli ho chiesto dove potevo andare, e mi ha detto di venire da lei.

— Qualche altra persona sa che lei è qui?

— Non sanno che sono uscito. Domani lo sapranno.

— Va’ a chiamare Remeivi — Maedda disse alla ragazza. — Si accomodi, dottor Shevek. Le converrebbe dirmi cos’è successo.

Shevek si sedette su una sedia di legno ma non si sbottonò il cappotto. Era stanco, tremava. — Sono scappato — disse. — Dall’Università, dalla prigione. Non so dove andare. Forse è tutta una prigione, qui. Sono venuto qui perché parlano delle classi inferiori, delle classi lavoratrici, e io ho pensato, guarda, sono come la mia gente. Gente che potrebbe aiutarsi tra loro.

— Che tipo di aiuto cerca?

Shevek si sforzò di calmarsi. Si guardò attorno, nell’uficio piccolo e sporco, e infine guardò Maedda. — Io ho una cosa che loro desiderano — disse. — Un’idea. Una teoria scientifica. Sono venuto qui da Anarres perché pensavo che qui avrei potuto fare il lavoro e pubblicarlo. Non capivo che qui un’idea è una proprietà dello Stato. E io, per uno Stato, non lavoro. Non posso prendere il denaro e le cose che mi danno. Io voglio andarmene. Ma non posso tornare a casa. Dunque sono venuto qui. A voi non serve la mia scienza, e forse anche a voi non piace il vostro governo.

Maedda sorrise. — No. Non mi piace affatto. Ma anche il mio governo non vuole molto bene a me. Lei non ha scelto il posto più sicuro dove recarsi, né per lei né per noi… Non si preoccupi. Oggi è il giorno; decideremo adesso cosa fare.

Shevek prese il messaggio che aveva trovato in tasca al cappotto e lo porse a Maedda. — Questa è la cosa che mi ha fatto venire. Proviene da gente che lei conosce?

— «Unisciti a noi tuoi fratelli…». Non so. Forse.

— Voi siete Odoniani?

— Parzialmente. Sindacalisti, libertari. Lavoriamo con i thuvianisti, il Sindacato Socialista dei Lavoratori, ma siamo anticentralisti. Lei è arrivato in un momento molto caldo, sa.

Maedda annuì. — È annunciata una dimostrazione, a tre giorni da oggi. Contro il reclutamento, le tasse di guerra, l’aumento di prezzo degli alimentari. Ci sono quattrocentomila disoccupati a Nio Esseia, e loro alzano le tasse e i prezzi. — Aveva continuato a fissare attentamente Shevek per tutta la durata della conversazione; ora, come se l’esame fosse finito, distolse lo sguardo e appoggiò la schiena alla sedia. — Questa città è pronta a tutto. Quel che ci occorre è uno sciopero, uno sciopero generale, e dimostrazioni con grande partecipazione di massa. Come lo sciopero del Mese Nono, guidato da Odo — aggiunse con un sorriso asciutto, forzato. — Ci servirebbe una Odo, oggi. E loro non hanno nessuna Luna con cui comprarci, questa volta. Faremo giustizia qui, o in nessun luogo. — Fissò nuovamente Shevek, e infine disse in tono più dolce: — Lei sa che cosa ha significato la vostra società, qui, per noi, negli ultimi centocinquant’anni? Sa che la gente, qui da noi, quando vuole augurarsi buona fortuna, dice: «Possa tu rinascere su Anarres!». Sapere che esiste, che c’è una società senza governo, senza polizia, senza sfruttamento economico, in modo che loro non possano più ripetere che si tratta soltanto di un miraggio, di un sogno da idealisti! Mi chiedo se lei capisce pienamente la ragione per cui l’hanno tenuta così bene nascosta laggiù a Ieu Eun, dottor Shevek. Perché non le hanno mai permesso di comparire in una riunione aperta al pubblico. Perché le saranno dietro come cani dietro a un coniglio, nel momento in cui si accorgeranno che lei è scomparso. Non è soltanto per il fatto che vogliono quella sua idea, dottor Shevek. Ma perché lei stesso è un’idea. Un’idea pericolosa. L’idea dell’anarchia, fatta carne. Che cammina tra noi.

— Allora avete la vostra Odo — disse la ragazza con la sua voce debole e ansiosa. Era rientrata mentre Maedda stava parlando. — Dopotutto, Odo era soltanto un’idea. Il dottor Shevek ne è la dimostrazione.

Maedda rimase in silenzio per un istante. — Una dimostrazione indimostrabile — disse poi.

— Perché?

— Se la gente sapesse che è qui, lo saprebbe anche la polizia.

— Che venga pure, e che provi a prenderlo — disse la ragazza, e sorrise.

— La dimostrazione dovrà essere assolutamente non violenta — disse Maedda, con improvvisa violenza nella voce. — Anche il Sindacato Socialista ha accettato questa condizione!

— Io non l’ho accettata, Tuio. Non conto di lasciarmi spaccare la faccia o di sparare in testa dai cappotti neri. Se mi colpiranno, restituirò il colpo.

— Unisciti a loro, se ti piacciono i loro metodi. La giustizia non si ottiene con la forza!

— E il potere non si ottiene con la passività.

— Noi non cerchiamo il potere. Noi cerchiamo la fine del potere! Che ne dice lei? — Maedda fece appello a Shevek. — I mezzi sono il fine. Odo l’ha ripetuto per tutta la vita. Soltanto la pace porta la pace, solo gli atti giusti portano giustizia! Non possiamo essere divisi su questo punto alla vigilia dell’azione!

Shevek portò lo sguardo sull’uomo, e sulla ragazza, e sull’uomo dei pegni, che ascoltava accanto alla porta, teso. Disse con voce stanca e tranquilla: — Se potete usarmi, usate me. Forse potrei pubblicare un comunicato a questo proposito, su uno dei vostri giornali. Non sono venuto su Urras per nascondermi. Se tutta la gente sapesse che sono qui, forse il governo avrebbe paura di arrestarmi in pubblico? Non so.

— È così — disse Maedda. — Naturalmente. — I suoi occhi scuri ardevano di eccitazione. — Dove diavolo è Remeivi? Va’ a chiamare sua sorella, Siro, dille di cercarlo e di farlo venire qui… Scriva perché è venuto qui, scriva di Anarres, scriva perché non vuole vendersi al governo, scriva cosa desidera… noi lo stamperemo. Siro! Chiama anche Meisthe… Noi la nasconderemo, ma per Dio, faremo sapere ad ogni uomo dell’A-Io che lei è qui, che lei è con noi! — Le parole uscivano da lui a valanga, le sue mani tremavano mentre parlava; cominciò ad andare avanti e indietro, rapidamente, per la stanza. — E poi, dopo la dimostrazione, dopo lo sciopero, vedremo. Forse le cose saranno differenti! Forse non dovrà più nascondersi!