Il frastuono delle pale rotanti delle macchine nell’ampia scatola di pietra della Piazza del Campidoglio era intollerabile: strepiti e stridori come la voce di un mostruoso robot. Esso sommerse il crepitio delle mitragliatrici sparate da bordo degli elicotteri. Anche quando il suono della folla si alzò in tumulto, il rombo degli elicotteri fu ancora udibile al di sopra di esso: l’urlo privo di mente delle armi, la parola senza significato.
Il fuoco degli elicotteri era puntato sulle persone ferme sui gradini del Direttorato o nelle immediate vicinanze. Il portico a colonne dell’edificio offerse immediato rifugio a coloro che stavano sui gradini, e in pochi istanti divenne una compatta massa di persone. Il rumore della folla, mentre la gente incalzava, presa dal panico, verso le otto strade che si allontanavano dalla Piazza del Campidoglio, si innalzò in un lamento simile a un grande vento. Gli elicotteri erano vicino alla folla, su di essa, ma non si poteva capire se avessero cessato il fuoco o stessero ancora sparando; i morti e i feriti nella folla erano premuti troppo strettamente per cadere.
Le porte foderate di bronzo del Direttorato cedettero con uno schianto che nessuno udì. La gente premeva e inciampava verso di esse per mettersi al riparo, per sottrarsi alla pioggia di metallo. Si spinsero a centinaia nelle alte sale di marmo: alcuni rannicchiandosi per nascondersi nel primo rifugio che scorgevano, altri andando avanti per trovare l’uscita posteriore, altri fermandosi a spaccare tutto ciò che potessero prima dell’arrivo dei soldati. Quando i soldati arrivarono, risalendo in marcia, nei loro bei cappotti neri, i gradini, tra uomini e donne morti e morenti, videro sulla parete alta, grigia, levigata del grande atrio una parola scritta all’altezza degli occhi di un uomo in piedi, con grandi macchie di sangue: ABBASS.
Spararono al morto che giaceva più vicino alla parola, e in seguito, quando il Direttorato fu riportato all’ordine, la parola venne lavata via dalla parete con acqua, sapone e stracci: ma rimase; era stata pronunciata; aveva significato.
Comprese ch’era impossibile andare più avanti con l’uomo che era con lui: l’uomo diventava debole, cominciava a inciampare. Non c’era alcun posto dove andare, soltanto lontano dalla Piazza del Campidoglio. E non c’era alcun posto dove fermarsi, anche. La folla si era due volte raccolta in Viale Mesee, cercando di presentare un fronte alla polizia, ma i carri armati dell’esercito erano giunti di rincalzo alla polizia, e avevano spinto la folla innanzi a sé, verso la Città Vecchia. Né l’una né l’altra volta i soldati spararono, ma si poteva udire il crepitio delle mitragliatrici da altre strade. Gli elicotteri percorrevano avanti e indietro le strade; da sotto di quelli non si poteva scappare.
L’uomo insieme a Shevek respirava ad ansiti, boccheggiava mentre avanzava faticosamente. Shevek l’aveva per metà trasportato per vari isolati, e adesso si trovavano alquanto indietro rispetto alla massa principale della folla. Era inutile cercare di raggiungerla. — Ecco, siediti qui — disse all’uomo, e lo aiutò a sedersi sullo scalino più alto della scala che portava all’ingresso seminterrato di una qualche sorta di deposito, sulle cui finestre chiuse era scritta col gesso la parola SCIOPERO, a grandi lettere. Scese fino alla porta del seminterrato e provò ad aprirla; era chiusa a chiave. Tutte le porte erano chiuse a chiave. La proprietà era privata. Egli raccolse un pezzo di lastra rotto da un angolo degli scalini e colpì fino a staccare dalla porta il lucchetto e l’anello, lavorando né furtivamente né vendicativamente, bensì con la sicurezza di una persona che lavorasse sulla propria porta d’ingresso. Guardò all’interno. Il seminterrato era pieno di casse e vuoto di persone. Aiutò l’altro uomo a scendere gli scalini, chiuse la porta alle loro spalle e disse: — Siediti, sdraiati, se vuoi. Vado a cercare acqua.
Il luogo, evidentemente un deposito di sostanze chimiche, aveva una fila di lavandini, e un sistema di idranti per gli incendi. L’altro uomo era svenuto, quando Shevek fu di ritorno. Egli colse l’occasione per lavare la mano dell’uomo con un filo d’acqua del tubo e per dare un’occhiata alla sua ferita. Era peggiore di quanto pensasse. Più di un proiettile doveva averla colpita, staccandogli nette due dita e fracassandogli il palmo e il polso. Spuntavano schegge d’osso simili a stuzzicadenti. L’uomo era fermo accanto a Shevek e Maedda quando gli elicotteri avevano cominciato a fare fuoco, e, colpito, si era afferrato a Shevek per sostenersi. Shevek aveva tenuto un braccio intorno a lui per tutta la durata della fuga nell’interno del Direttorato; due persone riuscivano a stare in piedi meglio di una sola, nella prima, selvaggia calca.
Fece quanto poté per fermare il sangue con un fazzoletto arrotolato, e per bendare, o almeno coprire, la mano fracassata, e fece bere all’uomo un po’ d’acqua. Non conosceva il suo nome; dalla fascia bianca al braccio doveva essere uno degli Operai Socialisti; pareva avere l’età di Shevek, sulla quarantina, o forse qualche anno di più.
Alle cave del Sudovest, Shevek aveva visto uomini feriti molto più gravemente di questo in incidenti, e aveva imparato che la gente può sopportare e superare cose incredibili, in ciò che riguardava le gravi ferite e il dolore. Ma laggiù ci si era presa cura dei feriti. C’era un chirurgo per amputare, plasma per compensare le perdite di sangue, un letto su cui giacere.
Si sedette sul pavimento accanto all’uomo, che adesso era in stato di semincoscienza, nello shock, e si guardò attorno, osservando le file di casse, i lunghi corridoi bui in mezzo ad esse, il lucore bianchiccio del giorno, che filtrava dalle fessure delle finestre chiuse, sulla parete anteriore, le bianche righe di salnitro sul soffitto, i segni degli stivali degli operai e delle ruote dei carrelli sull’impolverato pavimento di cemento. Un’ora centinaia di migliaia di persone che cantavano sotto il cielo aperto; un’ora dopo, due uomini nascosti in un seminterrato.
— Siete spregevoli — disse Shevek, in pravico, all’altro uomo. — Non potete tenere aperte le porte. Non sarete mai liberi. — Toccò delicatamente la fronte dell’uomo; era fredda e sudata. Allargò per qualche momento la fasciatura, poi si alzò, attraversò il buio seminterrato fino alla porta e si affacciò sulla strada. La squadra di carri armati era passata. Pochi sbandati della dimostrazione gli passarono davanti, di corsa, con la testa bassa, in territorio nemico. Shevek cercò di fermarne due; un terzo finalmente si arrestò. — Mi serve un dottore, c’è un ferito. Puoi mandare qui un dottore?
— Meglio portarlo via.
— Aiutami a trasportarlo.
L’uomo si allontanò. — Vengono di qua — gli disse ancora, girando indietro la testa. — Fai meglio a scappare.
Non passò nessun altro, e infine Shevek scorse una fila di soldati dal cappotto nero, in fondo alla strada, lontano. Ritornò al seminterrato, chiuse la porta, si riavvicinò al ferito, si sedette accanto a lui sulla polvere del pavimento. — Al diavolo — disse.
Dopo un poco, prese dalla tasca della camicia il piccolo notes e cominciò a studiarlo.
Nel pomeriggio, guardando con cautela all’esterno, vide un carro armato stazionato dall’altra parte della strada, e due altri, messi di traverso, all’incrocio. Questo spiegava le grida che aveva udito: dovevano essere soldati che si passavano ordini tra loro.
Atro gli aveva spiegato, una volta, come si facesse, come i sergenti potessero dare ordini ai soldati, i tenenti potessero dare ordini a soldati e sergenti, i capitani… e così via fino ai generali, che potevano dare ordini a tutti e non dovevano prenderne da nessuno, eccetto il comandante in capo. Shevek aveva ascoltato con disgusto e incredulità. — La chiami organizzazione? — aveva domandato. — La chiami addirittura disciplina? Ma non è nessuna delle due cose. È un meccanismo coercitivo di straordinaria inefficienza… una sorta di macchina a vapore del settimo millennio! Una struttura così rigida e fragile, che cosa può fare che ne valga la pena? — Questo aveva dato modo ad Atro di parlare del valore della guerra come nutrice del coraggio e della virilità ed eliminatrice degli inadatti, ma per il filo stesso del suo ragionamento era costretto a concedere l’efficacia della guerriglia, organizzata dal basso, autodisciplinata. — Ma essa funziona soltanto quando la gente pensa di combattere per qualcosa di proprio… sai, la loro casa o un’idea o l’altra — aveva detto l’anziano scienziato. Shevek aveva cambiato argomento. Adesso continuò la discussione, nel buio seminterrato, tra le pile di casse di sostanze chimiche prive di etichetta. Spiegò ad Atro ch’egli adesso capiva perché l’esercito fosse organizzato nel modo in cui era organizzato. Anzi, era necessario che fosse così. Nessuna forma razionale di organizzazione sarebbe servita allo scopo. Egli, semplicemente, non aveva capito che lo scopo era quello di permettere a uomini con mitragliatrici di uccidere uomini e donne disarmati, facilmente e in grande quantità, quando veniva loro ordinato di farlo. Solo, non riusciva ancora a capire come il coraggio, la virilità o l’adattamento c’entrassero.