Выбрать главу

Di tanto in tanto parlò anche con l’uomo che era con lui, quando cominciò a scendere il buio. L’uomo era adesso sdraiato con gli occhi aperti, e un paio di volte aveva emesso dei gemiti in un modo che aveva toccato il cuore di Shevek, gemiti pazienti, quasi infantili. Aveva compiuto un generoso sforzo per tenersi in piedi e per continuare ad andare avanti, per tutto il periodo in cui erano avvolti dal primo panico della folla che li aveva spinti nel Direttorato e fuori di esso, e quando si erano messi a correre, e poi a camminare, verso la Città Vecchia; aveva tenuto sotto il cappotto la mano ferita, premuta contro il fianco, e aveva fatto del suo meglio per continuare ad andare avanti e non far rimanere indietro Shevek. La seconda volta che aveva emesso un gemito, Shevek gli aveva preso la mano sana e aveva bisbigliato: — No, no. Sta’ quieto, fratello — soltanto perché non poteva sopportare di udire il suo dolore senza poter fare nulla per lui. L’uomo probabilmente aveva pensato ch’egli intendesse dire che doveva stare quieto per non tradire alla polizia la loro presenza, poiché annuì debolmente e strinse le labbra.

I due resistettero laggiù per tre notti. Per tutto quel periodo vi furono combattimenti sporadici nel distretti dei magazzini, e lo sbarramento dell’esercito non si spostò da quell’isolato del Viale Mesee. I combattimenti non giunsero mai molto vicino allo sbarramento, che era fortemente presidiato, cosicché i due uomini nascosti non ebbero alcuna opportunità di uscire senza farsi catturare. Una volta, quando il suo compagno era sveglio, Shevek gli domandò: — Se ci consegnassimo alla polizia, che cosa farebbero?

L’uomo sorrise e bisbigliò: — Ci sparerebbero.

Poiché si erano sentite molte sventagliate di mitragliatrice, vicino e lontano, per ore, e di tanto in tanto qualche forte esplosione e il rombo degli elicotteri, questa opinione pareva giustamente fondata. La ragione del sorriso era assai meno chiara.

Morì a causa della perdita di sangue quella notte, mentre giacevano l’uno accanto all’altro per riscaldarsi, sul materasso apprestato da Shevek con paglia da imballaggio trovata nelle casse. Era già rigido quando Shevek si svegliò, e si rizzò a sedere, e ascoltò il silenzio nel grande seminterrato buio, e, fuori, nella strada e in tutta la città, un silenzio di morte.

CAPITOLO 10

Nel Sudovest, le linee ferroviarie correvano per la maggior parte su una massicciata alta un metro o più al di sopra dei piani. Su un binario elevato si depositava meno polvere, ed esso inoltre permetteva ai viaggiatori una bella vista del deserto.

Il Sudovest era l’unica delle otto Divisioni di Anarres che fosse priva di un grosso corso d’acqua. Paludi si formavano per lo scioglimento dei ghiacci polari all’estremo sud, in estate; verso l’Equatore c’erano soltanto laghi alcalini poco profondi in ampie depressioni salate. Non c’erano montagne; ogni cento chilometri circa, correva da nord a sud una catena di basse colline spoglie, screpolate, in cui le intemperie avevano scavato guglie e burroni. Avevano strisce viola e rosse, e, sulle facce dei burroni, il muschio, una pianta che viveva in qualsiasi estremo di calore, freddo, aridità e vento, cresceva in forma di decise macchie verticali color verde e grigio, formando una scacchiera con le striature dell’arenaria. L’unico ulteriore colore del paesaggio era il marrone sporco, che si sbiancava nei bassipiani salati semicoperti dalla sabbia. Rare nubi di tempesta sfilavano sui pianori, bianco vivo sul cielo violetto. Da esse non veniva pioggia, ma soltanto ombra. La massicciata e le rotaie luccicanti correvano dritte alle spalle del treno, a perdita d’occhio, e dritte davanti ad esso a perdita d’occhio.

— L’unica cosa che si può fare col Sudovest — disse il macchinista, — è arrivare alla sua fine.

L’uomo che era con lui non rispose, poiché s’era addormentato. La sua testa sobbalzava con le oscillazioni del motore. Le sue mani, indurite dal lavoro e annerite dal gelo, erano appoggiate alle cosce, il suo volto rilassato era segnato da rughe, triste. Era salito sul treno alla Montagna del Rame, e, non essendoci altri passeggeri, il macchinista gli aveva chiesto di viaggiare nella locomotiva per tenergli compagnia. Si era addormentato immediatamente. Il macchinista gli dava un’occhiata di tanto in tanto, con disappunto ma con simpatia. Aveva visto così tanta gente consumata dalla stanchezza, negli ultimi anni, che essa gli pareva la condizione normale.

Verso la fine del lungo pomeriggio l’uomo si destò, e dopo essersene rimasto a guardare il deserto per un lungo tempo, chiese: — Tu fai sempre da solo questo viaggio?

— Negli ultimi tre, quattro anni.

— S’è mai guastata la macchina, quaggiù?

— Un paio di volte. C’è un mucchio d’acqua e di razioni nell’armadietto. Hai fame, anzi?

— Non ancora.

— Mandano il carro attrezzi dal Solitario in un giorno o due.

— È la città più vicina?

— Sì. Millesettecento chilometri dalle Miniere di Sedap al Solitario. Il tragitto più lungo tra due città di Anarres. Io lo faccio da undici anni.

— E non sei stufo?

— No. Mi piace lavorare da solo.

Il passaggero annuì.

— E poi, è tranquillo. Mi piace un lavoro sempre uguale; ti lascia pensare. Quindici giorni di viaggio, quindici giorni di riposo con la compagna a Nuova Speranza. Con l’anno che viene, con l’anno che va; con la siccità, con la carestia, con quel che c’è. Niente cambia, c’è sempre la siccità, da queste parti. Amo questo percorso. Mi tiri fuori l’acqua, eh? È al fresco sotto l’armadio, in fondo.

Entrambi trassero una lunga sorsata dalla bottiglia. L’acqua aveva un sapore piatto, alcalino, ma era fresca. — Ah, com’è buona! — disse il passeggero, contento. Rimise a posto la bottiglia, e, tornato al suo sedile nella parte anteriore della cabina, sbadigliò e si stirò, premendo le mani contro il soffitto. — Allora hai un legame di compagni — disse. Nel modo in cui lo disse, c’era una semplicità che piacque al macchinista, il quale gli rispose: — Da diciotto anni.

— Sei appena agli inizi.

— Accidenti, sono d’accordo! Ora, è proprio la cosa che alcuni non capiscono. Ma come la vedo io, se vai molto in giro a copulare quando sei un ragazzo, è quello il periodo migliore, ma poi finisci per accorgerti che è sempre la stessa cosa. Una gran bella cosa, però! Comunque, ciò che è diverso non è la copula; è l’altra persona. E diciott’anni è appena l’inizio, giustissimo, se vuoi capire fino in fondo quella differenza. Almeno, se quella che vuoi capire è una donna. Una donna non ammetterà mai che un uomo sia altrettanto un problema, ma forse le donne fanno finta… Comunque, è proprio questo il piacere della cosa. Il problema, le finte e controfinte e così via. La varietà. Ma per avere la varietà non basta semplicemente andare in giro. Io giravo tutta Anarres, da giovane. Ho portato macchine in ogni Divisione. Avrò conosciuto cento ragazze in tante città diverse. E la cosa diventava noiosa. Allora sono tornato qui, e faccio questo percorso ogni tre decadi, anno dopo anno in. questo deserto, sempre lo stesso, dove non si distingue una collina di sabbia dall’altra ed è tutto uguale per tremila chilometri da qualunque parte uno guardi, e torno a casa dalla stessa compagna… e non mi annoio neppure una volta. Non è il cambiare sempre da un posto all’altro, che ti tiene interessato. È l’avere il tempo dalla tua. Lavorare con esso, non contro di esso.