— Non so. Ottenne il risultato di far stampare il libro.
— Il fine giusto, ma i mezzi sbagliati! Ho pensato a lungo a questo, a Rolny, Shevek. Ora ti dico che cosa c’era di sbagliato. Le donne gravide non conoscono etica. Soltanto il genere più primitivo di impulso al sacrificio. Al diavolo il libro, il legame di compagni, e la verità, se minacciano il prezioso feto! È un impulso alla preservazione razziale, ma può operare direttamente in contrasto con la comunità: è un impulso biologico, non sociale. Un uomo dovrebbe essere lieto del fatto che non cade mai in preda ad esso. Ma farebbe meglio a comprendere come una donna possa cadervi, e a mantenere la vigilanza. Penso che sia questo il motivo per cui il vecchio archismo usava le donne come proprietà. Perché le donne lo permettevano? Perché erano sempre gravide… perché erano già possedute, schiave!
— Giusto, forse, ma la nostra società, qui, è una vera comunità dove incorpora veramente le idee di Odo. È stata una donna a fare la Promessa! Che cosa fai? Ti lasci andare a sentimenti di colpa? sguazzi nel fango? — La frase da lui usata non fu «sguazzare nel fango», non essendoci su Anarres animali che potessero sguazzare nel fango; fu un composto, che significava alla lettera «ricoprire in continuità con uno spesso strato di escrementi». La flessibilità e la precisione del pravico si prestavano alla creazione di vivaci metafore assolutamente impreviste dai suoi inventori.
— Be’, no. È stato bello avere Sedik! Ma mi sono davvero sbagliata sul libro.
— Ci siamo sbagliati entrambi. I nostri sbagli li facciamo sempre insieme. Non crederai davvero di avermi fatto prendere tu la decisione?
— In questo caso penso di sì.
— No, il fatto è che nessuno di noi decise. Nessuno di noi fece la scelta. Lasciammo che Sabul decidesse per noi. Il nostro Sabul personale, interiorizzato… le convenzioni, il moralismo, la paura dell’ostracismo sociale, la paura di essere differenti, la paura di essere liberi! Be’, mai più. Io imparo lentamente, ma imparo.
— Che cosa conti di fare? — chiese Takver, con un tremito di calore e di eccitazione nella voce.
— Andare ad Abbenay con te e fondare un gruppo, un gruppo di edizioni. Stampare i Princìpi, integrali. E ogni altra cosa che ci piace. Abbozzo di un’istruzione aperta nelle scienze, di Bedap, che il CDP non farebbe circolare. E la commedia di Tirin. È per me un dovere. È stato lui a insegnarmi cosa sono le prigioni, e chi le costruisce. Coloro che costruiscono i muri sono prigionieri di se stessi. Intendo andare a svolgere la funzione che mi spetta nell’organismo sociale. Intendo andare ad abbattere i muri.
— Finirà col circolare un mucchio di vento — disse Takver, raggomitolata sotto le coperte. Si appoggiò a lui, ed egli le circondò le spalle con il braccio. — Prevedo di sì — egli rispose.
Per lungo tempo dopo che Takver si fu addormentata, Shevek rimase desto, con le mani sotto la nuca, a fissare nell’oscurità e ad ascoltare il silenzio. Pensò al lungo viaggio che l’aveva portato via dalla Polvere, ricordando i livelli e i miraggi del deserto, il macchinista dalla testa calva e abbronzata e gli occhi candidi, il quale aveva detto che si doveva lavorare con il tempo e non contro di esso.
Shevek aveva imparato qualcosa sulla propria volontà, in quegli ultimi quattro anni. Nella frustrazione della sua volontà ne aveva imparato la forza. Nessun imperativo sociale o morale la uguagliava. Neppure la fame poteva allontanarla. Tanto meno egli aveva, tanto più assoluto diveniva il suo bisogno di essere.
Egli riconobbe quel bisogno, in termini Odoniani, come la sua «funzione cellulare», il termine analogico per l’individualità dell’individuo, il lavoro ch’egli può meglio compiere, e pertanto il suo contributo ottimale alla società. La società gli doveva lasciar esercitare liberamente quella sua funzione ottimale, e doveva trovare la propria libertà e la propria forza nella coordinazione di tutte quelle funzioni. Era questa un’idea centrale della Analogia di Odo. Il fatto che la società Odoniana di Anarres non avesse raggiunto l’ideale non poteva, agli occhi di Shevek, diminuire le sue responsabilità verso di essa; anzi, era vero il contrario. Eliminato il mito dello Stato, la reale mutualità e reciprocità della società e dell’individuo diveniva chiara. Poteva venire richiesto agli individui il sacrificio, ma non il compromesso: poiché sebbene soltanto la società potesse dare sicurezza e stabilità, soltanto l’individuo, la persona, aveva il potere della scelta morale: il potere di cambiare, la funzione essenziale della vita. La società Odoniana era concepita come una rivoluzione permanente, e la rivoluzione comincia nella mente che pensa.
Tutto questo Shevek aveva pensato, e in questi termini, poiché la sua coscienza era totalmente Odoniana.
Egli era pertanto certo, a questo punto, che la sua volontà incondizionata e radicale di creare era, in termini Odoniani, la giustificazione di se stessa. Il suo senso di primaria responsabilità verso il proprio lavoro non lo isolava dai suoi simili, dalla sua società, come aveva creduto. Lo impegnava con essi in modo assoluto.
Sentiva anche come un uomo che avesse questo senso di responsabilità verso una cosa, fosse obbligato a portarlo avanti fino in fondo in tutte le cose. Era un errore vedersi come il suo veicolo e niente altro, sacrificare ad essa ogni altro obbligo.
Questa disposizione a sacrificare era ciò che Takver aveva riconosciuto in se stessa quando era in gestazione: ne aveva parlato con una punta di orrore, di vergogna, poiché anch’ella era Odoniana, anche per lei la separazione dei fini dai mezzi era falsa. Tanto per lei quanto per lui non c’era fine. C’era il processo: il processo era tutto. Potevi andare in una direzione promettente o potevi sbagliare, ma non partivi con la previsione di fermarti in qualche punto, mai. Ogni responsabilità, ogni impegno così assunti acquistavano sostanza e durata.
Così il suo reciproco impegno con Takver, la loro relazione, era rimasta pienamente viva nel corso dei loro quattro anni di separazione. Entrambi avevano sofferto a causa della separazione, e sofferto molto, ma a nessuno di loro era venuto in mente di sfuggire alla sofferenza negando l’impegno.
Perché dopotutto, egli ora pensò, giacendo nel calore del sonno di Takver, la cosa che entrambi cercavano era la gioia: la completezza dell’essere. Se sfuggi alla sofferenza, sfuggi anche alla possibilità della gioia. Puoi ottenere il piacere, o i piaceri, ma non sarai mai appagato, esaudito. Non conoscerai mai il ritorno a casa.
Takver sospirò piano nel sonno, come per dire che era d’accordo con lui, e si voltò dall’altra parte, seguendo qualche suo tranquillo sogno.
L’esaudimento, pensò Shevek, è una funzione del tempo. La ricerca del piacere è circolare, ripetitiva, atemporale. La ricerca di varietà dello spettatore, del cacciatore di emozioni, di colui che pratica la promiscuità sessuale, termina sempre nello stesso punto. Ha una fine. Giunge alla fine e deve ricominciare. Non è un viaggio di andata e ritorno, ma un ciclo chiuso, una stanza chiusa a chiave, una cella.
Al di fuori della stanza chiusa a chiave c’è il passaggio del tempo, in cui lo spirito può, con la fortuna e il coraggio, costruire le fragili, improvvisate, improbabili strade e città della fedeltà: un paesaggio abitabile dagli esseri umani.
Soltanto quando un atto si svolge entro il paesaggio del passato e del futuro esso è un atto umano. La fedeltà, che asserisce la continuità di passato e futuro, e collega il tempo in un tutto unico, è la radice della forza umana; non c’è alcun bene che si possa compiere senza di essa.
Così, guardando indietro a quei quattro anni, Shevek li vide non come anni sprecati, ma come una parte dell’edificio che egli e Takver stavano costruendo con le loro vite. Il valore del lavorare con il tempo, invece che contro di esso, egli pensò, è che così non è sprecato. Anche il dolore conta.