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CAPITOLO 11

Rodarred, l’antica capitale della Provincia AEana, era una città costituita di punte: una foresta di pini, e al di sopra delle guglie dei pini, una più aerea foresta di torri. Le strade erano scure e strette, muschiose, spesso nebbiose, al di sotto degli alberi. Soltanto dai sette ponti che attraversavano il fiume si poteva alzare lo sguardo e vedere la cima delle torri. Alcune di esse erano alte cento metri e più, altre erano dei semplici germogli, come se fossero case normali andate a seme. Alcune erano fatte di pietra, altre di porcellana, di mosaico, fogli di vetro colorato, coperture di rame, stagno, oro, ornate in modo incredibile, delicate, luccicanti. In queste strade affascinanti e allucinanti aveva sede l’urrasiano Consiglio dei Governi Mondiali fin dall’inizio dei suoi trecento anni d’esistenza. Anche molte ambasciate e consolati presso il Consiglio e l’A-Io si raggruppavano a Rodarred, a meno di un’ora da Nio Esseia, sede nazionale del governo.

L’ambasciata di Terra al Consiglio era ospitata nel Castello del Fiume, che si allargava basso e pesante tra l’autostrada per Nio e il fiume, e che ergeva soltanto una torre larga e triste, dal tetto quadrato e dalle feritoie simili ad occhi socchiusi. Le sue mura aveva resistito alle armi e alle precipitazioni di quattordici secoli. Alberi cupi si affollavano presso il suo lato più lontano dal fiume, e in mezzo ad essi c’era un ponte levatoio, sopra un fossato. Il ponte levatoio era abbassato, e le sue porte erano aperte. Il fossato, il fiume, l’erba verde, le mura nere, la bandiera in cima alla torre, tutti s’illuminarono tra la foschia quando il sole s’innalzò al di sopra della nebbia del fiume e tutte le campane delle torri di Rodarred affrontarono il loro compito prolungato e assurdamente armonioso di suonare le sette del mattino.

Un impiegato seduto a una modernissima scrivania, all’interno del castello, era impegnato in un tremendo sbadiglio. — Non siamo veramente aperti fino alle otto — disse cavernosamente.

— Voglio vedere l’Ambasciatore.

— L’Ambasciatore sta facendo colazione. Lei dovrà farsi dare un appuntamento. — Così dicendo, l’usciere si strofinò gli occhi assonnati e per la prima volta poté osservare chiaramente il visitatore. Lo fissò imbambolato, mosse le labbra varie volte e disse: — Chi è lei? Da dove… Che cosa vuole?

— Voglio vedere l’ambasciatore.

— Resti solo qui — disse l’usciere nel più puro accento Niota, continuando a fissarlo, e allungò la mano verso il telefono.

Un furgone si era intanto fermato nello spazio compreso tra la porta del ponte levatoio e l’ingresso dell’Ambasciata, e ne stavano uscendo vari uomini: i bottoni di metallo dei loro cappotti neri luccicavano al sole. Due altri uomini avevano appena messo piede nell’atrio, provenienti dal corpo centrale della costruzione, e parlavano tra loro: persone dall’aspetto strano, stranamente vestite. Shevek girò intorno alla scrivania dell’usciere e si avviò verso di loro, cercando di correre. — Aiuto! — disse.

I due alzarono lo sguardo, sorpresi. Uno si tirò indietro, aggrottando la fronte. L’altro guardò alle spalle di Shevek e vide il gruppo in uniforme, che stava entrando in quel momento nell’Ambasciata. — Entri qua — disse con freddezza; prese il braccio di Shevek e si chiuse con lui in un piccolo ufficio laterale: il tutto in due passi e un singolo gesto, precisi come quelli di un ballerino. — Che succede? Lei viene da Nio Esseia?

— Voglio vedere l’Ambasciatore.

— È uno scioperante?

— Shevek. Mi chiamo Shevek. Vengo da Anarres.

Gli occhi dello straniero si spalancarono, brillanti, intelligenti, nel suo volto nero come il giaietto. — Mio Dio! - mormorò il Terrestre, e poi, in iotico: — Intende chiedere asilo?

— Non so. Io…

— Venga con me, dottor Shevek. La porterò in un posto dove potrà sedere.

Ci furono corridoi, scale, e la mano dell’uomo dalla pelle nera sul suo braccio.

Delle persone cercavano di togliergli il cappotto. Si divincolò per impedirglielo, temendo che cercassero il notes che aveva nella tasca della camicia. Qualcuno parlò con autorità in una lingua straniera. Qualcun altro gli disse: — Va tutto bene: vogliamo soltanto vedere se è ferito. C’è del sangue sul suo cappotto.

— Un altro — disse Shevek. — È il sangue di un altro.

Riuscì a rizzarsi a sedere, anche se la testa gli girava. Era su un divano, in una stanza grande, illuminata dal sole; evidentemente doveva essere svenuto. Accanto a lui c’erano un paio di uomini e una donna. Li guardò senza capire.

— Lei si trova nell’Ambasciata di Terra, dottor Shevek. Qui è in suolo Terrestre. È perfettamente al sicuro. Può rimanere qui finché lo desidera.

La pelle della donna era di colore giallo-bruno, come terra ferrosa, ed era glabra, ad eccezione della testa; non depilata, ma glabra. I lineamenti erano strani e infantili: bocca piccola, naso corto, occhi con ciglia lunghe e piene, guance e mento arrotondati, imbottiti di grasso. L’intera figura era arrotondata, morbida, infantile.

— Lei qui è al sicuro — ripeté la donna.

Egli cercò di parlare, ma non ne fu capace. Uno degli uomini lo spinse leggermente sul petto, dicendo: — Si sdrai, si sdrai. — Egli si distese, ma mormorò ancora: — Voglio vedere l’Ambasciatore.

— Sono io l’Ambasciatore. Mi chiamo Keng. Siamo lieti che lei sia venuto da noi. Lei qui è al sicuro. Per favore, ora si riposi, dottor Shevek. Parleremo più tardi. Non c’è fretta. — La voce della donna aveva una strana caratteristica, come una cantilena, ma era roca, come la voce di Takver.

— Takver — egli disse, nella propria lingua, — non so cosa fare.

Lei gli rispose: — Dormi — ed egli si addormentò.

Dopo due giorni di sonno e di pasti, vestito nuovamente del suo abito grigio iotico, che nel frattempo era stato ripulito e stirato, egli venne introdotto nella sala privata dell’Ambasciatore, al terzo piano della torre.

L’Ambasciatore non gli fece un inchino né gli strinse la mano, ma unì le palme delle mani davanti al petto e sorrise. — Sono lieta che lei si senta meglio, dottor Shevek. No, devo dire soltanto Shevek, vero? Prego, si accomodi. Mi spiace di dover parlare con lei in iotico, che è una lingua straniera per entrambi. Non conosco la vostra lingua. Mi è stato detto che è una lingua molto interessante, l’unico linguaggio inventato razionalmente che è divenuto la lingua di un grande popolo.

Egli si sentiva grosso, pesante, peloso, a confronto di questa soave straniera. Si sedette in una delle profonde, morbide poltrone. Anche Keng si sedette, ma nel sedersi fece una smorfia. — Ho mal di schiena — disse, — a forza di sedere in queste poltrone troppo comode! — E Shevek comprese in quel momento che non era una donna di trent’anni o meno, come egli aveva pensato, ma che doveva avere sessant’anni o più; la pelle liscia e il fisico infantile l’avevano tratto in inganno. — A casa — continuò la donna, — sediamo prevalentemente su cuscini appoggiati in terra. Ma se lo facessi qui, dovrei alzare ancora di più la testa per parlare con le persone. Voi Cetiani siete così alti!… C’è un piccolo problema. Cioè, non siamo proprio noi ad averlo, ma il governo dell’A-Io. La sua gente di Anarres, le persone che mantengono comunicazione radio con Urras, sa, ha chiesto di parlare urgentemente con lei. E il Governo Iotico è imbarazzato. — Sorrise: un sorriso di puro divertimento. — Non sa cosa rispondere.

Era calma. Era calma come una pietra levigata dall’acqua che, a contemplarla, ti calma. Shevek si appoggiò allo schienale e lasciò passare un tempo molto considerevole prima di rispondere.

— Il Governo Iotico sa che sono qui?

— Be’, non ufficialmente. Noi non abbiamo detto nulla, e loro non hanno fatto domande. Ma molti impiegati e segretarie iotici lavorano qui nell’Ambasciata. Perciò, naturalmente, lo sanno.

— È per voi un pericolo… il fatto che io stia qui?

— Oh, no. La nostra ambasciata è accreditata presso il Consiglio dei Governi Mondiali, non presso la nazione dell’A-Io. Lei aveva pienamente il diritto di venire qui, e il resto del Concilio potrebbe costringere l’A-Io ad ammetterlo. E, come le ho detto, questo castello è suolo Terrestre. — Sorrise di nuovo. Il suo volto liscio si ripiegò in molti piccoli solchi, poi si dispiegò di nuovo. — Una deliziosa fantasia dei diplomatici! Questo castello, distante undici anni luce dalla Terra, questa stanza in una torre di Rodarred, nell’A-Io, sul pianeta Urras del sole Tau Ceti, è suolo Terrestre.