La bambina rispose: — Shevek, posso rimanere nella camera per la notte?
— Certamente. Ma cos’è successo?
Il viso lungo, delicato, di Sedik tremò e parve frammentarsi. — Non gli piaccio, a quelli del dormitorio — disse, con la voce stridula per la tensione, ma ancor più morbida di prima.
— Non gli piaci? Che intendi dire?
Non si erano ancora toccati. Sedik gli rispose con disperato coraggio. — Perché non gli piace… non gli piace il Gruppo, e Bedap, e… e tu. Vi chiamano… La sorella grande della stanza, ha detto che voi… che noi siamo tutti tra… Ha detto che siamo dei traditori — e nel pronunciare la parola, la bambina sobbalzò come se fosse stata colpita da un proiettile; Shevek la prese fra le braccia. Sedik si tenne a lui con tutta la sua forza, piangendo con grandi singhiozzi. Era troppo vecchia, troppo alta perché Shevek la prendesse in braccio. Rimase fermo ad abbracciarla, accarezzandole i capelli. Alzò gli occhi al di sopra della testa della bambina e guardò Bedap. Anche i suoi occhi erano pieni di lacrime. Disse: — Tutto a posto, Bedap, vai pure.
Bedap non poteva fare altro che lasciarli, l’uomo e la bambina, in quell’unica intimità ch’egli non poteva condividere, la più dura e la più profonda, l’intimità del dolore. Il fatto di andarsene non gli diede alcun senso di sollievo o di fuga; invece, si sentì inutile, sminuito. «Ho trentanove anni» pensò, mentre si dirigeva al proprio domicilio, la stanza da cinque uomini in cui viveva in perfetta indipendenza. «Quaranta tra poche decadi. Che cosa ho fatto? Che cosa continuo a fare? Nulla. Mettermi in mezzo. Mettermi in mezzo nella vita degli altri perché non ne ho una mia. Non me ne sono mai dato il tempo. E il tempo mi sfuggirà, tutto d’un tratto, e io non avrò mai avuto… quello.» Si guardò alle spalle, nella strada lunga e tranquilla, dove le lampade formavano morbide pozze di luce nell’oscurità di vento, ma ormai si era allontanato troppo per vedere ancora il padre e la figlia, oppure essi se n’erano andati. Non avrebbe saputo dire cosa intendesse con «quello», sebbene fosse bravo con le parole; eppure sentiva di comprenderlo chiaramente, sentiva che tutta la sua speranza stava in quella comprensione, e che se voleva salvarsi doveva cambiare vita.
Quando Sedik si fu calmata abbastanza per lasciarlo, Shevek la lasciò a sedere sul primo scalino del dormitorio, ed entrò a dire alla guardiana che la bambina sarebbe rimasta con i genitori per la notte. La guardiana gli parlò con freddezza. Gli adulti che lavoravano nei dormitori dei bambini avevano una naturale tendenza a disapprovare le visite domiciliari notturne, poiché le trovavano negative; Shevek si disse che probabilmente era sbagliato voler vedere nella guardiana qualcosa di diverso da questa disapprovazione. I corridoi del centro d’apprendimento erano fortemente illuminati ed echeggiavano di rumori, suoni di strumenti musicali, voci di bambini. Erano i vecchi suoni, odori, ombre, echi dell’infanzia che Shevek ricordava, e con essi ricordò anche le paure. Le paure si dimenticano.
Uscì e ritornò a casa con Sedik, tenendole il braccio sulla spalla sottile. La bambina taceva, era ancora agitata. Disse bruscamente, quando giunsero al loro ingresso, nel domicilio principale di Pekesh: — So che non siete molto contenti, tu e Takver, di avermi con voi per la notte.
— Come mai questa idea?
— Perché volete stare in intimità, le coppie adulte hanno bisogno d’intimità.
— C’è Pilun.
— Pilun non conta.
— E neppure tu.
Sedik tirò su col naso, cercando di sorridere.
Quando giunsero alla luce della stanza, però, la faccia bianca e chiazzata di rosso, gonfia, della bambina, sorprese Takver, che disse: — Che cosa è successo? … — e Pilun, interrotta nel pasto, tolta bruscamente al suo stato di gioia, cominciò a gemere, e questo fece di nuovo piangere Sedik, e per qualche tempo si ebbe l’impressione che tutti piangessero, e si confortassero reciprocamente, e rifiutassero il conforto. Il tutto terminò quasi bruscamente in un completo silenzio, con Pilun sulle ginocchia della madre, Sedik su quelle del padre.
Quando la bambina piccola fu sazia e venne messa a dormire, Takver disse, a voce bassa ma tesa: — Allora, che cosa c’è?
Anche Sedik s’era per metà addormentata, appoggiando la testa sul petto del padre. Egli la sentì raccogliersi per rispondere. Le accarezzò i capelli per tenerla tranquilla, e rispose per lei. — Alcune persone al centro di apprendimento non ci approvano.
— E che accidenti di diritto hanno di disapprovarci?
— Ssst, ssst. Il Gruppo.
— Oh — disse Takver, con uno strano timbro gutturale; nello sbottonarsi la tunica, strappò, senza volerlo, il bottone. Abbassò gli occhi sul bottone, allargando il palmo. Poi guardò Shevek e Sedik.
— Da quanto va avanti?
— Un mucchio di tempo — disse Sedik, senza alzare la testa.
— Giorni, decadi, tutto il trimestre?
— Oh, più ancora. Ma diventano… Sono peggio, nel dormitorio, adesso. La notte. Terzol non le ferma. — Sedik parlava come una sonnambula, e in tono molto sereno, come se la questione non la riguardasse.
— E che cosa fanno? — chiese Takver, anche se un’occhiata di Shevek la avvertì di non insistere.
— Be’… mi trattano male, tutto qui. Non mi fanno entrare nei giochi e in tutto il resto. Tip, la conoscete, era mia amica, veniva sempre a parlare con me, una volta spente le luci. Ma ha smesso di farlo. Adesso nel dormitorio la sorella grande è Terzol, e non le… e dice: «Shevek è… Shevek è un…»
Egli la interruppe, accorgendosi della crescente tensione nel corpo della bambina, della ritrosia e del modo in cui cercava di raccogliere il proprio coraggio, una combinazione insopportabile: — Le dice: «Shevek è un traditore, Sadik è una egoizzatrice»… Sai benissimo che cosa le dice, Takver! — I suoi occhi fiammeggiavano. Takver venne avanti e toccò la guancia della figlia, una volta soltanto, in modo piuttosto timido. Disse, a bassa voce: — Sì, lo so — e andò a sedere sull’altra predella, di fronte a loro.
La bambina piccola, messa a dormire accanto al muro, russava leggermente. Le persone della camera accanto ritornarono a casa dalla mensa, si udì sbattere una porta, qualcuno nella piazza diede la buona notte ed ebbe risposta da una finestra aperta. Il grosso domicilio, duecento stanze, era desto, tranquillamente vivo intorno a loro; come la loro esistenza entrava nella sua, così la sua esistenza entrava nella loro, una parte di una totalità. Infine Sedik scivolò via dalle ginocchia del padre e si sedette sulla predella, al suo fianco, accanto a lui. I suoi capelli neri erano arruffati e le scendevano davanti agli occhi.
— Non volevo dirvelo perché… — la voce della bambina suonava sottile e bassa. — Ma diventa sempre peggio. Una spinge l’altra.
— Allora non devi più tornarci — disse Shevek. La circondò col braccio, ma lei gli resistette, rimase a sedere eretta.
— Se andassi a parlare io… — disse Takver.
— Non serve a niente. Non cambiano idea.
— Ma contro che cosa ci siamo messi? — chiese Takver, stupita.
Shevek non rispose. Continuò a circondare Sedik con il braccio, ed ella infine cedette, appoggiando la testa contro il suo braccio, con stanchezza, con pesantezza. — Ci sono altri centri d’apprendimento — disse infine, senza molta sicurezza.
Takver si alzò. Non riusciva a starsene ferma, e voleva fare qualcosa, agire. Ma non c’era molto da fare. — Lascia che ti pettini, Sedik — disse a bassa voce.