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Jack Vance

I signori dei draghi

I

L’appartamento di Joaz Banbeck, scavato nel più profondo del cuore di un picco calcareo, consisteva di cinque stanze principali, su cinque piani diversi. In alto c’era il reliquiario e la sala del consiglio: il primo era un locale dalla fosca magnificenza che ospitava i vari archivi, trofei e ricordi dei Banbeck; la seconda era un ambiente lungo e stretto, rivestito di scuri pannelli di legno che arrivavano all’altezza del petto, e sovrastato da una volta intonacata di bianco. Si estendeva per tutta la larghezza del picco, e perciò i balconi si affacciavano da una parte sulla Valle dei Banbeck, e dall’altra sulla Via di Kergan.

Più sotto c’era l’alloggio privato di Joaz Banbeck: un salotto e una stanza da letto, poi il suo studio e finalmente, in basso, un laboratorio dove Joaz non ammetteva mai nessuno.

Nell’appartamento si entrava passando dallo studio, un ampio locale a forma di L, con un complesso soffitto a centine, cui erano appesi quattro candelabri incrostati di granate. I candelabri, ora, erano spenti. Nella stanza entrava solo una luce grigia e acquosa dalle quattro lastre di vetro molato su cui, allo stesso modo di una camera obscura, si potevano inquadrare i panorami al di là della Valle dei Banbeck. Le pareti erano rivestite di canne lignificate. Il pavimento era coperto da un tappeto a motivi di angoli, quadrati e cerchi marrone, bruni e neri.

Al centro dello studio stava un uomo nudo.

Era ricoperto soltanto dai lunghi, finissimi capelli bruni che gli scendevano sul dorso, e dal monile d’oro che gli cingeva il collo. Il volto era angoloso e tagliente, il corpo sottile. Sembrava stesse in ascolto, o forse meditava. Talvolta lanciava un’occhiata al globo di marmo giallo posato su un ripiano vicino, e allora muoveva le labbra, come se mandasse a memoria qualche frase o qualche sequenza d’idee.

In fondo allo studio si aprì una pesante porta.

Una giovane donna dal volto di fiore si affacciò: aveva un’espressione maliziosa e altera. Nel vedere l’uomo nudo, si portò di scatto le mani alla bocca, soffocando un grido. L’uomo nudo si voltò… ma la pesante porta si era già richiusa.

Per un momento rimase immerso in una profonda riflessione, aggrottando la fronte, poi si avviò lentamente verso la parete, nel tratto interno della L. Fece ruotare un settore della libreria, e passò attraverso l’apertura. La libreria tornò a posto con un tonfo. Scendendo una scala a chiocciola, l’uomo uscì in una camera rozzamente scavata nella roccia: il laboratorio privato di Joaz Banbeck. Su un banco c’erano utensili, sagome e frammenti di metallo, una serie di batterie elettriche, pezzi di circuiti, che costituivano attualmente l’oggetto della curiosità di Joaz Banbeck.

L’uomo nudo diede un’occhiata al banco. Prese uno dei congegni e l’esaminò con un’aria quasi condiscendente, sebbene il suo sguardo fosse limpido e stupito come quello d’un bambino.

Voci sommesse, provenienti dallo studio, filtrarono nel laboratorio. L’uomo nudo sollevò la testa per ascoltare, poi si chinò infilandosi sotto il banco. Sollevò una lastra di pietra e si insinuò nel varco, calandosi nel vuoto tenebroso. Rimise a posto la pietra, prese una canna luminosa, e si avviò per una stretta galleria che poco dopo scendeva, sfociando in una grotta naturale. A intervalli regolari, tubi luminosi irradiavano una luce fioca, appena sufficiente per penetrare l’oscurità.

L’uomo nudo continuò a procedere svelto, mentre i capelli sericei fluivano dietro di lui come un alone.

Nello studio, la menestrella Phade e un anziano siniscalco stavano discutendo. — L’ho visto davvero! — insistette Phade. — L’ho visto con questi occhi: era uno dei sacerdoti, e stava proprio lì, come ho già detto. — Lo tirò per il gomito, irritata. — Credi che sia matta o isterica?

Rife, il siniscalco, scrollò le spalle, senza pronunciarsi in un senso né nell’altro. — Adesso non lo vedo. — Salì la scala e andò a controllare in camera da letto. — Vuota. Le porte, di sopra, sono sbarrate. — Sbirciò Phade con occhi da gufo, — E io ero seduto al mio posto, davanti all’ingresso.

— Ma dormivi. Russavi anche quando io ti sono passata davanti!

— Ti sbagli. Tossivo.

— Con gli occhi chiusi, e la testa reclinata all’indietro!

Rife scrollò di nuovo le spalle. — Sveglio o addormentato, poco importa. Anche ammettendo che quello sia entrato, come ha fatto a uscire? Dopo che tu mi hai chiamato, ero sveglio, vorrai ammetterlo.

— Allora resta di guardia, mentre io vado a cercare Joaz Banbeck. — Phade corse lungo il corridoio e si avviò per la Passeggiata degli Uccelli, così chiamata per la serie di uccelli favolosi di lapislazzuli, oro, cinabro, malachite e maracassite intarsiati nel marmo. Da una galleria di colonne tortili di giada verde e grigia, passò sulla Via di Kergan, un passo naturale che costituiva la strada centrale del Villaggio dei Banbeck. Arrivata alla porta, chiamò un paio di ragazzotti che lavoravano nei campi. — Correte all’allevamento, trovate Joaz Banbeck! Affrettatevi, conducetelo qui: debbo parlare con lui.

I ragazzi si diressero correndo verso un basso cilindro di mattoni neri, un miglio più a nord.

Phade attese. Ora che il sole Skene era al meriggio, l’aria era calda. I campi di veccia, bellegarde e spharganum esalavano un odore gradevole. Phade andò ad appoggiarsi a una staccionata. Poi cominciò a chiedersi se ciò che aveva da dire era davvero tanto urgente, e se era proprio vero. — No! — disse a se stessa, rabbiosamente. — L’ho visto! L’ho visto!

Ai lati, gli alti strapiombi bianchi si levavano verso l’Orlo dei Banbeck, e più oltre c’erano monti e picchi: su tutto dominava il cielo scuro, screziato da cirri lievi come piume. Skene brillava abbagliante, come una minuscola scheggia di fulgore.

Phade sospirò, quasi convinta di essersi ingannata. Ancora una volta, ma con minore veemenza, si rassicurò. Nessuno, prima di lei, aveva veduto un sacerdote; perché avrebbe dovuto immaginare di averlo visto?

I ragazzi, dopo aver raggiunto l’allevamento, erano scomparsi tra la polvere dei recinti degli esercizi. Le scaglie balenavano e luccicavano; garzoni, signori dei draghi, armieri vestiti di pelle nera si muovevano indaffarati.

Dopo un momento apparve Joaz Banbeck.

Montava un Ragno alto, dalle zampe sottili, spronandolo a tutta velocità, e l’animale scendeva a grandi balzi sussultanti per il sentiero che portava al Villaggio dei Banbeck. L’incertezza di Phade si fece più intensa. Joaz si sarebbe infuriato, avrebbe accolto il suo annuncio con un’occhiata incredula? Irrequieta, lo guardò avvicinarsi. Poiché era giunta nella Valle dei Banbeck soltanto un mese prima, non era ben sicura della propria posizione sociale.

I precettori l’avevano istruita diligentemente nella piccola valle spoglia, a sud, dov’era nata, ma qualche volta la disparità tra l’insegnamento e la realtà pratica la sconcertava. Aveva imparato che tutti gli uomini seguivano un piccolo, identico gruppo di comportamenti. Joaz Banbeck, invece, non teneva conto di tali limiti, e Phade lo trovava completamente imprevedibile. Sapeva che era un uomo relativamente giovane, anche se il suo aspetto non denunciava chiaramente l’età. Aveva un volto pallido e austero, in cui gli occhi grigi brillavano come cristalli, la bocca larga e sottile che denotava flessibilità, e che tuttavia non si incurvava mai tanto da alterare la linea netta. Si muoveva in modo pigro, quasi languido: la sua voce non esprimeva veemenza; non ostentava particolare abilità nell’uso della sciabola o della pistola; sembrava evitare volutamente ogni gesto che potesse conquistargli l’ammirazione o l’affetto dei suoi sudditi. Eppure aveva l’una e l’altro.

In un primo momento, Phade lo aveva giudicato freddo, ma poi aveva cambiato idea. Era, aveva pensato invece, un uomo annoiato e solo, dotato di un tranquillo umorismo che qualche volta sembrava un po’ lugubre. Ma la trattava senza scortesia e Phade, che provava con lui tutte le sue cento e una civetterie, non di rado aveva l’impressione di percepire una scintilla di reazione.