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— E la “Stranger”? — chiese Heseltine.

— Già, la “Stranger” — disse Jamieson, e scosse la testa con aria pensosa. — Ritengo che più presto ce la dimenticheremo, meglio sarà.

Fallada uscì, sbattendo la porta. Carlsen si mosse per seguirlo, e Jamieson gli fece un sorriso da cospiratore. — Parlategli voi, Comandante — gli disse. — È comprensibile che sia sconvolto, ma sono certo che si possa convincerlo a condividere il nostro punto di vista.

— Farò del mio meglio — rispose Carlsen.

Raggiunse Fallada sui gradini esterni. Lo scienziato si stava guardando in giro con espressione irritata, ma vedendo Carlsen si rilassò.

— Non farti ridurre in questo stato da lui — disse Carlsen.

— Non è questo… È che mi disgusta! Quello non è un uomo, è un rettile. Come fa a sapere che il mio libro è importante se non l’ha nemmeno letto?

— Quel libro è importante, che lui l’abbia letto o no. Quindi perché prendersela?

Fallada sorrise, dominando l’irritazione. — Non capisco come tu riesca sempre a restare così calmo — disse.

Carlsen gli mise una mano sulla spalla. — Non è difficile — disse. — Noi due abbiamo cose molto più importanti a cui pensare.

4

BRANO TRATTO DA: “Matematici e Mostri: Autobiografia di uno scienziato”, di Siegfried Buchbinder (Londra e New York, Anno 2145).

Io sono forse uno dei pochi che udirono Carlsen pronunciare per la prima volta la sua famósa definizione “Inversione del Tempo”.

Questo accadde nella primavera del 2117.

Il professor Hans Fallada, che insegnava da due anni all’Istituto Tecnologico del Massachusetts, veniva spesso da noi, in Franklin Street, sia perché era legato d’amicizia con mio padre, sia perché sua moglie Kirsten era amica intima di mia sorella.

Il professor Fallada aveva cinquant’anni più di sua moglie, ma il loro matrimonio era eccezionalmente felice.

Una tiepida sera d’aprile i signori Fallada erano stati invitati da noi a una cena in giardino. Verso le nove Kirsten Fallada chiamò mia madre per chiederle se poteva portare un altro ospite. Naturalmente mia madre rispose di sì. Mezz’ora dopo i Fallada arrivarono con un uomo che tutti riconoscemmo subito. Era il famoso Comandante Carlsen.

Proprio quel giorno un settimanale aveva pubblicato con grande rilievo la notizia che Carlsen aveva rifiutato oltre due milioni di dollari per il suo libro sui vampiri dello spazio.

Da più di due anni non si sentiva parlare del Comandante Carlsen. Una rivista aveva raccontato che Carlsen viveva in un monastero buddista nel Mare della Tranquillità, sulla Luna, ma, in effetti, la sua assenza dalla scena mondiale era circondata di mistero.

E adesso quella leggendaria figura a tutti nota era entrata nel nostro giardino e si era messa a parlare del modo migliore di arrostire bistecche di renna…

Carlsen aveva quasi ottant’anni nel 2117. Di aspetto ancora vigoroso, spalle dritte e portamento eretto, sembrava molto più giovane. Solo andandogli vicino si notavano rughe sottili intorno agli occhi e alla bocca. Mia sorella affermava che era l’uomo più attraente che avesse mai incontrato.

Inutile dire che passai tutta la serata ascoltandolo ammirato, in silenzio. Era il mio eroe. Come tanti altri ragazzi della mia età, volevo diventare esploratore spaziale. Anche la mia famiglia condivideva la mia ammirazione per Carlsen: era come avere Marco Polo o Lawrence d’Arabia a cena.

Per un paio d’ore la conversazione toccò argomenti generici. Tutti erano contenti e rilassati. Mi permisero persino di bere un bicchiere di birra fatta in casa. Verso mezzanotte mia madre cominciò a insistere perché andassi a letto. Quando me lo ripeté per la terza volta mi alzai da tavola e mi avviai di malavoglia, ma, arrivato davanti a Carlsen per dargli la buona notte, restai un momento lì impalato a guardarlo, poi osai chiedergli: — Posso farvi una domanda?

Mia madre disse: — No. Va’ a dormire. — Ma Carlsen gentilmente mi incoraggiava a parlare.

— State davvero in un monastero sulla Luna? — gli chiesi.

— Non stare a fare domande, Siggy — disse mio padre. — Ubbidisci alla mamma.

Carlsen però, nient’affatto seccato per la mia domanda, sorrise e mi rispose: — No. Non è vero. In questi due anni sono stato in un monastero a Kokungchak.

— Dov’è questo posto? — chiesi, senza badare alle occhiatacce di mio padre.

— Sulle montagne del Tibet.

Ecco dov’era stato. Ecco qual era il rifugio segreto che ogni giornalista avrebbe voluto conoscere, a qualunque prezzo… e la notizia era stata regalata a un ragazzino di dodici anni. Ma io volevo sapere di più.

— Perché non venite ad abitare qui a Cambridge? Nessuno vi disturberebbe.

Carlsen mi fece una carezza sui capelli e disse: — Chissà, forse più avanti… — Poi, rivolgendosi a mio padre: — Torno a Storavan, in Svezia.

Intanto mi ero rimesso a sedere, e nessuno mi disse più di andare a letto, dato che da quel momento Carlsen lasciò da parte ogni reticenza e rispose a tutte le domande. Mia sorella, che da bambina veniva chiamata “Kate Spietta” per la sua insaziabile curiosità, gli chiese perché fosse andato a finire nel Tibet. E Carlsen disse che c’era andato per sfuggire alla pubblicità da quando la rivista “Universe” aveva pubblicato la storia dei vampiri. (Si trattava dell’articolo: “I Killer dell’Universo: La Vera Storia della ‘Stranger’ e di quello che avvenne poi”, scritto da Richard Foster e Jennifer von Geijerstam e pubblicato il 26 gennaio 2112. Più tardi gli autori l’ampliarono, ricavandone un libro dallo stesso titolo).

Mio padre chiese a Carlsen se quel suo tentativo di sfuggire alla pubblicità non avesse prodotto l’effetto opposto.

Carlsen rispose che era stato vero, ma solo per qualche tempo. Quando i vampiri erano stati distrutti, nel 2080, lui aveva sentito il bisogno di restare solo per potere meditare in pace. E anche al professor Fallada erano necessarie solitudine e tranquillità per riscrivere il suo libro. Se l’intera storia delle loro vicende fosse stata pubblicata in quegli anni, non avrebbero più avuto un momento di pace.

Mentre Carlsen parlava, avevo acceso il mini-registratore, che tenevo sempre in tasca per ogni evenienza, ma poco dopo mi ero addormentato. Mio padre mi portò a letto.

La mattina dopo, quando mi svegliai, Carlsen se n’era andato, ma il registratore era ancora in funzione.

Conservo tuttora il nastro di quella conversazione. Parte di ciò che vi era registrato venne reso noto qualche tempo dopo, nel libro di Carlsen “L’incidente, della ‘Stranger’ ”. Il libro, però, termina con i particolari del recupero dell’astronave e del suo atterraggio sulla Luna.

Il nastro, invece, conteneva altre notizie, come brevi accenni sul soggiorno di Carlsen a Storavan e sugli studi sui vampiri da lui portati avanti insieme a Ernst von Geijerstam. Carlsen terminava il racconto con la narrazione della morte di von Geijerstam, avvenuta a centocinque anni di età, in seguito a un incidente di sci.

Carlsen si diceva inoltre convinto che von Geijerstam sarebbe morto comunque intorno a quell’età. Il suo “vampirismo benigno” gli aveva sì prolungato la vita, ma solo rallentandogli il metabolismo. Il problema di fondo, diceva Carlsen, non era quello di rallentare il metabolismo, ma quello di “invertirlo”.

Evidentemente, prima d’allora Carlsen non aveva mai parlato di questo problema con Fallada, poiché questi disse: — È fisicamente impossibile invertire il tempo!

— Il tempo in astratto o assoluto, sì — rispose Carlsen. — Ma non il tempo vissuto o relativo. Nel nostro universo, tempo è un’altra definizione del metabolismo, o processo metabolico. Nel nostro corpo questo processo ha luogo a scatti, avanza cioè come la lancetta corta di un orologio, consumando gradatamente la nostra vita. Ogni volta che ci concentriamo, noi ritardiamo, o meglio rallentiamo questo processo. Ecco perché scienziati e filosofi in generale vivono più a lungo dell’uomo medio. Il “vampirismo benigno” aumenta la lunghezza della vita umana perché aumenta il potere di concentrazione dell’uomo. I vampiri dello spazio avevano ottenuto una specie di immortalità concentrandosi per un intero millennio onde evitare di essere attirati e distrutti in un buco nero. Ma non si erano resi conto del significato della loro scoperta. Credevano di dover continuare ad assorbire energia vitale per mantenersi in vita. Invece sbagliavano. Era solo uno stimolante per loro, come per noi è il whisky.