Del proprio padre, Alder non disse nulla. Non sapeva nulla. Mora non gli aveva mai parlato del padre. Anche se vivevano di rado in castità, era raro che le streghe stessero con un uomo per più di un paio di notti, e raramente ne sposavano uno. Molto più spesso, due di loro vivevano insieme per tutta la vita, e quel genere di unione era chiamato connubio di streghe o legame di femmine. Il figlio di una strega, quindi, aveva una madre o due madri, ma nessun padre. Era cosa risaputa, e Sparviere non chiese nulla a tale riguardo; volle però sapere del suo addestramento.
Lo stregone Sula gli aveva insegnato le poche parole della vera lingua che conosceva, e alcuni incantesimi di ritrovamento e di illusione, per cui Alder non aveva dimostrato alcuna attitudine. Sula si era interessato al ragazzo tanto da scoprire il suo vero dono: Alder era un riparatore. Sapeva ricongiungere. Sapeva ricreare l’integrità delle cose. Un utensile rotto, una lama di coltello o una barra spezzata, una ciotola in frantumi… Alder era in grado di rimettere insieme i frammenti senza che rimanesse alcun segno, e l’oggetto tornava robusto come prima. Così il suo maestro lo mandò in cerca di diversi incantesimi riparatori, che il giovane trovò per lo più tra le streghe dell’isola, con cui lavorò per imparare.
— È una specie di guarigione — commentò Sparviere. — Non è un dono da poco, né un’arte facile.
— Per me era una gioia — disse Alder, abbozzando un sorriso smunto. — Provare gli incantesimi, e a volte scoprire come usare una delle vere parole… Rimettere insieme una botte ormai rinsecchita, con tutte le doghe staccate dai cerchi… È un enorme piacere, vederla ricostruirsi, gonfiarsi fino ad assumere la curvatura giusta, e rimanere dritta, pronta ad accogliere il vino… C’era un arpista di Meoni, un grande arpista, oh, suonava con la forza di un temporale sulle colline, di una tempesta di mare. Maltrattava le corde dell’arpa, le pizzicava e le tirava, nell’impeto della sua arte, e le corde si spezzavano proprio nel momento culminante della musica. Così l’arpista mi assunse perché gli stessi accanto quando suonava, e quando rompeva una corda io la riparavo rapido come la nota stessa, e lui continuava a suonare.
Sparviere annuì con la cordialità di un collega che parla di lavoro. — Hai mai aggiustato il vetro? — domandò.
— Sì, ma è un lavoro lungo e sgradevole — rispose Alder — dato che il vetro quando si rompe va in frantumi.
— Però un grosso buco nel calcagno di una calza può essere anche peggio — commentò Sparviere, e discussero per un po’ dell’arte della riparazione, prima che Alder tornasse alla propria storia.
Era diventato un riparatore, dunque, uno stregone con una modesta clientela, noto localmente per il proprio talento. Quando aveva circa trent’anni, era andato nella città principale dell’isola, Meoni, con l’arpista, che doveva suonare là in occasione di un matrimonio. Una donna andò a cercarlo nel loro alloggio, una giovane, che non aveva mai fatto pratica come strega; aveva però un dono, disse lei, lo stesso dono di Alder, e desiderava che lui le insegnasse. In effetti, risultò più dotata di lui. Pur non sapendo una parola della Vecchia lingua, era in grado di rimettere insieme una brocca rotta o di aggiustare una corda logora e sfilacciata semplicemente con dei movimenti delle mani e una canzone muta che intonava a bocca chiusa con un filo di voce, e aveva guarito arti spezzati di animali e persone, cosa in cui Alder non aveva mai osato cimentarsi.
Così, invece di diventare maestro e allieva, avevano unito le loro abilità apprendendo a vicenda, arricchendo notevolmente le rispettive conoscenze. La giovane tornò a Elini e visse con la madre di Alder, Mora, che le insegnò diversi trucchi utili per presentarsi nel modo migliore e impressionare i clienti, anche se le trasmise ben poco quanto a conoscenze stregonesche vere e proprie. La giovane si chiamava Giglio; lei e Alder lavorarono insieme a Elini e in tutte le città collinari vicine, man mano che la loro fama cresceva.
— E io mi innamorai di lei — disse lui. La sua voce era cambiata quando aveva cominciato a parlare della giovane, perdendo il tono esitante, facendosi concitata e melodiosa.
— Aveva capelli scuri, con una lucentezza che andava sul rosso — aggiunse.
Era stato impossibile nascondere l’amore che l’uomo provava, e lei se n’era resa conto e lo aveva corrisposto. Fosse stata o meno una strega, spiegò Giglio, non le importava; disse che loro due erano nati per stare insieme, nel lavoro e nella vita; lei lo amava e lo avrebbe sposato.
Così si sposarono, e vissero assai felici per un anno, e per la metà del secondo.
— Tutto andò per il meglio finché non giunse il momento della nascita del nostro bambino — raccontò Alder. — Il parto era in ritardo, troppo in ritardo. Le levatrici provarono a provocarlo con erbe e incantesimi, ma era come se il bambino non volesse venire al mondo, non volesse separarsi da lei e nascere. E non nacque. Morì e fece morire anche lei.
Trascorsi alcuni istanti, disse: — Eravamo tanto felici…
— Me ne rendo conto.
— E il mio dolore fu pari alla gioia che avevamo conosciuto.
Il vegliardo annuì.
— Sono riuscito a sopportarlo — continuò Alder. — Sai come vanno le cose… Mi sembrava che a quel punto la mia vita non avesse più molto senso, ma sono riuscito a tollerare il dolore.
— Sì.
— Però in inverno, due mesi dopo la sua morte, feci un sogno. E nel sogno c’era lei.
— Racconta.
— Ero sul fianco di un colle. C’era un muro lungo la sommità della collina, che scendeva attraverso il pendio… un muro basso, come di confine tra dei pascoli. Lei era dall’altra parte di esso, sotto di me, dove c’era più buio.
Sparviere annuì una volta. La sua faccia era diventata una maschera di pietra.
— Mi stava chiamando. Udii la sua voce che pronunciava il mio nome e andai da lei. Sapevo che era morta, lo sapevo nel sogno, ma ero contento di andare… Non la vedevo bene, e andai da lei per osservarla meglio, per starle vicino. Lei tese le mani oltre il muro. Non era più alto del mio petto. Avevo pensato che potesse avere con sé il bambino, invece era sola. Era protesa verso di me, così io allungai le mani e presi le sue.
— Vi siete toccati?
— Volevo andare da lei, però non riuscivo a superare il muro. Le mie gambe si rifiutavano di muoversi. Cercai di attirarla a me, e lei desiderava venire, sembrava potesse farlo, ma c’era quel muro tra noi. Impossibile superarlo. Così lei si sporse oltre l’ostacolo e mi baciò sulla bocca, pronunciando il mio nome. E disse: "Liberami!".
"Pensai che chiamandola con il suo vero nome forse avrei potuto liberarla, portarla dalla parte del muro dove mi trovavo io, e allora dissi: ’Vieni con me, Mevre!’. Ma lei rispose: ’Questo non è il mio nome, Hara, questo non è più il mio nome’. E si staccò dalle mie mani, anche se cercai di tenerla stretta. Gemette: ’Liberami, Hara!’. Ma stava scendendo nell’oscurità. Era tutto tenebra, il pendio in basso sotto il muro. Io gridai il suo nome e il suo nome d’uso e tutti i nomi affettuosi con cui l’avevo vezzeggiata un tempo, ma lei continuava ad allontanarsi. E poi mi svegliai".
Sparviere fissò a lungo il proprio ospite. — Mi hai rivelato il tuo nome, Hara — gli fece notare.
Alder parve un po’ frastornato, ed emise un paio di respiri profondi, poi alzò lo sguardo con un’espressione di mesto coraggio. — Sei la persona più fidata a cui potessi rivelarlo, credo.