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Alder accolse l’evocatore provando un senso di apprensione, quasi di diffidenza. Anche l’erborista era un grande mago, ma la sua arte non era del tutto diversa dal mestiere di Alder, quindi tra loro c’era una certa affinità; senza dimenticare quanto fosse benefica la mano di quell’uomo. L’evocatore, invece, non si occupava di cose corporee, ma dello spirito, della mente e della volontà degli uomini, degli spettri, dei significati. La sua arte era arcana, pericolosa, piena di rischi e minacce. L’evocatore era stato accanto ad Alder in quel luogo, sul confine, al muro. Con lui, l’oscurità e la paura tornarono.

Nessuno dei tre maghi disse nulla, all’inizio. Se avevano una cosa in comune, era una grande capacità di restare in silenzio.

Così fu Alder a parlare, cercando di dire tutto ciò che aveva nell’animo, perché non bisognava tacere nulla.

— Se ho fatto qualcosa di sbagliato che mi ha portato in quel luogo, o ha portato mia moglie da me, o le altre anime… se posso porre rimedio allo sbaglio che ho fatto, lo farò. Solo che non so cosa io possa aver fatto.

— O cosa sei — disse l’evocatore.

Alder restò muto.

— Non molti di noi sanno chi o cosa sono — dichiarò il portinaio. — Abbiamo solo una vaga idea.

— Raccontaci come sei giunto la prima volta al muro di pietra — chiese l’evocatore.

Alder raccontò.

I maghi ascoltarono in silenzio e per un po’, quando lui ebbe terminato, non dissero nulla. Poi l’evocatore domandò: — Hai pensato a cosa significa superare quel muro?

— So che non potrei tornare indietro.

— Solo i maghi possono oltrepassare il muro da vivi, e solo in caso di estremo bisogno. L’erborista può andare con un sofferente fino al muro, ma se il malato lo oltrepassa, lui non lo segue.

L’evocatore era così alto e massiccio e scuro che, guardandolo, Alder pensò a un orso.

— La mia arte evocatoria ci consente di richiamare i morti oltre il muro per un breve periodo, per qualche attimo, se è necessario farlo. Io stesso dubito che esistano necessità tali da giustificare una violazione così grande della legge e dell’equilibrio del mondo. Non ho mai fatto quell’incantesimo. Né ho superato il muro. L’arcimago lo ha fatto, e il re insieme a lui, per sanare la ferita nel mondo provocata dal mago di nome Cob.

— E quando l’arcimago non tornò, Thorion, il nostro evocatore di allora, scese nella terra ferma a cercarlo — disse l’erborista. — Tornò, ma cambiato.

— Non c’è bisogno di parlare di questo — osservò l’uomo grande e grosso.

— Forse bisogna farlo — Replicò l’erborista. — Forse Alder deve saperlo. Thorion si fidò troppo della propria forza, credo. Rimase là troppo a lungo. Pensava di potersi richiamare in vita grazie alla propria arte evocatoria, ma a tornare furono solo la sua capacità, il suo potere, la sua ambizione… la voglia di vivere che non dà vita. Tuttavia, noi ci fidammo di lui, perché lo avevamo amato. Così lui ci divorò. Finché Irian non lo distrusse.

Lontano da Roke, sull’isola di Gont, l’ascoltatore interruppe Alder. — Che nome era, l’ultimo? — chiese.

— Irian.

— Conosci questo nome?

— No, mio signore.

— Nemmeno io. — Dopo una pausa, Sparviere continuò sottovoce, quasi a malincuore. — Però vidi Thorion, là. Nella terra ferma, dove si era avventurato per cercare me. Mi addolorò, vederlo là. Gli dissi che poteva tornare al di qua del muro. — La sua faccia assunse un’espressione cupa, torva. — Parole sbagliate, le mie. Non esistono parole opportune tra i vivi e i morti. Ma anch’io lo avevo amato.

Rimasero seduti in silenzio. Sparviere si alzò di colpo per stirare le braccia e massaggiarsi le cosce. Girellarono entrambi un poco. Alder bevve qualche sorso d’acqua dal pozzo. Il vecchio prese una vanga e un manico nuovo da inserirvi, e si mise al lavoro, levigando l’asta di quercia e assottigliandone l’estremità da incastrare nell’attrezzo.

Disse: — Continua, Alder — e quello proseguì la propria storia.

I due maestri erano rimasti in silenzio per un po’ dopo che l’erborista aveva parlato di Thorion. Alder si fece coraggio e pose una domanda su una cosa a cui pensava spessissimo: chiese in che modo i morti giungevano al muro, e come vi giungessero i maghi.

L’evocatore rispose prontamente: — È un viaggio spirituale.

Il vecchio guaritore parve più indeciso. — Non è con il corpo che oltrepassiamo il muro, dato che il corpo di chi muore rimane qui. E se un mago va là durante una visione, il suo corpo addormentato è sempre qui, vivo. Così chiamiamo quel viaggiatore… ciò che compie il viaggio dal corpo… lo chiamiamo anima, spirito.

— Ma mia moglie mi ha preso la mano — disse. Non poteva raccontare ancora che lei gli aveva baciato la bocca. — Ho sentito il suo tocco.

— Ti è sembrato di sentirlo — replicò l’evocatore.

— Se si sono toccati materialmente, se si è creato un legame… — disse l’erborista all’evocatore — non potrebbe essere per questo che gli altri morti possono andare da lui, chiamarlo, perfino toccarlo?

— Proprio per questo lui deve resistere loro — dichiarò l’evocatore, lanciando un’occhiata ad Alder. I suoi occhi erano piccoli, ardenti.

Lui percepì quelle parole come un’accusa, un’accusa ingiusta. Ribatté: — Io cerco di resistere, mio signore. Ho cercato di farlo. Ma sono così numerosi… e lei è con loro… e soffrono, e mi supplicano.

— Non possono soffrire — disse l’evocatore. — La morte pone fine a tutte le sofferenze.

— Forse l’ombra del dolore è dolore — intervenne l’erborista. — Ci sono montagne in quella terra, e si chiamano Dolore.

Il portinaio fino a quel momento non aveva quasi parlato. Con la sua voce pacata, disse: — Alder è un riparatore, non un rompitore. Non credo che possa rompere questo legame.

— Se lo ha creato, può anche romperlo — fece l’evocatore.

— Lo ha creato lui?

— Non possiedo tale capacità, mio signore — disse Alder, così spaventato dalle loro parole da parlare in tono rabbioso.

— Allora dovrò scendere in mezzo a loro — fece l’evocatore.

— No, amico mio — disse il portinaio; e il vecchio erborista aggiunse: — Di noi tutti, tu sei proprio l’ultimo che dovrebbe farlo.

— Ma questa è la mia arte.

— E la nostra.

— Chi, allora?

Il portinaio disse: — Sembra che Alder sia la nostra guida. Essendo venuto da noi in cerca di aiuto, forse può aiutarci. Andiamo tutti con lui nella sua visione… andiamo al muro, senza oltrepassarlo, però.

Così, quella notte, quando a tarda ora, timoroso, Alder si arrese al sonno e si ritrovò sul colle grigio, gli altri erano con lui: l’erborista, una calda presenza nel gelo; il portinaio, sfuggente e argenteo come il chiarore stellare; e il massiccio evocatore, l’orso, una forza oscura.

Questa volta si trovavano non dove la collina scendeva nelle tenebre, ma sul pendio vicino, rivolti verso la sommità. In quel punto, il muro correva lungo la cresta del colle ed era basso, arrivava poco più su del ginocchio. Sopra di esso, il cielo con le rade stelle minuscole era perfettamente nero.

Non il minimo movimento.

Sarebbe stato arduo salire fino al muro, pensò. Prima, lo aveva sempre avuto sotto di sé.

Ma se fosse riuscito ad andarvi, forse avrebbe trovato Giglio accanto a esso, come la prima volta. Forse avrebbe potuto prenderle la mano, e i maghi l’avrebbero riportata indietro, da lui. O avrebbe potuto scavalcare il muro in quel punto così basso e andare da lei.

Cominciò a risalire il pendio. Era facile, facilissimo… era quasi arrivato.

— Hara!

La voce profonda dell’evocatore lo richiamò indietro come un cappio attorno al collo, come un guinzaglio tirato con forza. Alder incespicò, fece ancora un passo avanti, barcollando, giunto quasi al muro… cadde in ginocchio e tese le mani verso le pietre. Stava gemendo: — Salvatemi! — … ma rivolto a chi? Ai maghi, o alle ombre oltre il muro?