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LuAnn trattenne il respiro. Quel nome per esteso, inciso nel bronzo… La lapide le sembrò sul punto di spalancarsi per inghiottirla nella tomba. LuAnn cominciò ad arretrare, ad allontanarsi da quel luogo saturo di ombre.

Quell’altro qualcosa…

Oggi, giorno zero, il qualcosa proveniva da questa tomba, non dalla tomba di sua madre. Più forte, più imperioso di quanto lei lo avesse mai percepito. Forme evanescenti prive di dimensioni, prive di profondità parevano danzare nel vento al di sopra della tomba, simili ai tentacoli di una medusa degli abissi.

LuAnn Tyler, con la figlia stretta ancora di più al petto, girò di scatto su se stessa, agguantò il seggiolino e prese a correre disperatamente attraverso il Camposanto dei Pascoli del Cielo. Giù per la collinetta, fuori dal portale.

Prendi quei fottuti soldi, ragazzina!

Andarsene da là dentro. Qualsiasi posto sarebbe andato bene, purché non fosse là dentro.

Papà ti dice di prenderli! All’inferno tutti e tutto! Dammi retta! Usa quel cervello di gallina che hai. Usalo, cazzo!

Non era stato necessario che LuAnn ascoltasse con attenzione.

Quando sei qui sotto, non ti resta niente! NIENTE! Ti ho forse mai mentito, piccolina? L’ho forse mai fatto? Dai retta a papà. Perché papà ti vuole bene. Tu lo sai…

Non era stato necessario che LuAnn tenesse gli occhi chiusi stretti stretti, come quelli di un uccellino.

Prendi quei soldi del cazzo, stupida puttanella! PRENDILI!

I rumori della realtà, il motore agricolo e il traffico sulla strada, erano ricomparsi. L’uomo sulla motofalciatrice la osservò correre via sotto quel cielo di un blu da cartolina. Poi guardò la tomba dalla quale LuAnn era scappata. C’era gente a cui i cimiteri facevano paura perfino in pieno sole.

L’uomo tornò a guardare verso il portale dei Pascoli del Cielo. LuAnn Tyler era scomparsa.

Come se non fosse mai stata là.

Il vento freddo le inseguiva ancora mentre scendevano per la lunga strada sterrata.

Il volto di LuAnn era madido di sudore. La luce del sole, raggi accecanti che penetravano fra gli squarci nelle chiome degli alberi, fiammeggiava nei suoi occhi. LuAnn, con Lisa sempre stretta a sé, continuava a correre con un ritmo da maratoneta: una falcata che aveva la regolarità di un meccanismo ad alta precisione e la grazia di un felino predatore. Negli anni dell’adolescenza non c’era un solo corridore nell’intera contea a cui LuAnn Tyler non fosse stata in grado di far mangiare la polvere, inclusi gli attaccanti delle squadre di football del liceo. Un talento atletico da campione mondiale, così le aveva detto il suo insegnante di ginnastica, una velocità che era come un dono degli dèi. Ma con quel dono, nessuno le aveva mai detto che cosa fare. Aveva soltanto permesso a quella ragazzina di quattordici anni con un corpo da donna di scappare dal giovane idiota che allungava le mani, quando non poteva gonfiargli la faccia.

LuAnn sentiva il cuore martellarle nel petto. Ebbe la fugace visione di sé che crollava con la faccia in avanti nella ghiaia, folgorata da un attacco cardiaco identico a quello che aveva stroncato suo padre. Poteva darsi che esistesse chissà quale misterioso difetto organico, eredità genetica della discendenza di Benny Tyler. Un subdolo killer invisibile, sempre in agguato, pronto a strappare un altro Tyler dalla faccia della Terra.

LuAnn rallentò. Lisa aveva cominciato a lamentarsi troppo e a piangere. Allentando la stretta sulla piccola, sussurrandole paroline all’orecchio per calmarla e muovendosi in grandi, lenti cerchi sotto l’ombra degli alberi, LuAnn finalmente si fermò. E anche il pianto della bambina cessò.

LuAnn camminò per il resto della strada che separava il cimitero dalla Airstream. Benny Tyler le aveva parlato, e gli ultimi dubbi si erano dissipati nel nulla. Adesso aveva la risposta.

Avrebbe messo quanto poteva in una valigia e avrebbe poi chiesto a qualcuno di andare a prelevare il resto. Per un po’ si sarebbe fatta ospitare da Beth, che insisteva da un pezzo perché andasse a stare da lei. Beth abitava in una vecchia casa colonica con un sacco di stanze, e dopo la morte di suo marito la sua unica compagnia erano un paio di gatti che, a sentire lei, la superavano quanto a pazzia. LuAnn aveva deciso: sarebbe tornata a scuola, a costo di portare Lisa con sé in aula. Non aveva importanza. Si sarebbe iscritta al college municipale e avrebbe preso il diploma. Se c’era riuscito Johnny Jarvis, perché non avrebbe potuto riuscirci anche lei?

Quanto al signor Jackson e alle sue palline magiche, avrebbe trovato qualcun altro per prendere il suo posto. Questo era un problema che non la riguardava più.

Per anni aveva cercato risposte come quelle. Ora le aveva trovate. E nel trovarle, il peso del mondo si era sollevato dalle sue spalle. Sua madre le aveva parlato. Forse lo aveva fatto in modo indiretto, ma l’incantesimo aveva comunque avuto luogo.

— Non dimenticare mai quelli che abbiamo amato e che adesso non sono più quaggiù con noi — sussurrò a Lisa. — Noi non sappiamo. Loro sanno.

LuAnn arrivò sulla sommità del dosso affiancato dai boschi scuri. Il giorno prima, Duane Harvey era pieno di soldi. Chissà quanti gliene restavano. Nel momento in cui si ritrovava qualche dollaro in tasca, Duane era sempre fin troppo svelto a offrire da bere a destra e a sinistra. Lo sapeva il cielo come poteva aver bruciato le mazzette nascoste sotto il letto. LuAnn non gli aveva neppure chiesto da dove provenivano quei soldi. Per quanto la riguardava, erano solo un’ulteriore ragione per andarsene.

Discese la strada tortuosa sull’altro lato del dosso. Uno stormo di uccelli neri si sollevò gracchiando dagli alberi, e il loro improvviso battito d’ali la fece sussultare. La Airstream era una sagoma immobile circondata dalla sua corte di relitti e di rottami. Ma adesso, c’era qualcos’altro tra relitti e rottami.

Un’auto nera. Una grossa decappottabile, la vernice troppo lucida, con troppe cromature di cattivo gusto. Sul cofano spiccava una specie di ornamento, anch’esso pesantemente cromato. Da lontano pareva avere la forma di una donna impegnata in qualche atto osceno. LuAnn continuò ad avanzare, ma molto più lentamente. Il furgone di Duane era sotto sequestro. Nessuno dei suoi amici buzzurri e ubriaconi poteva permettersi una macchina del genere.

Quell’auto nera, con quelle ruote da pappone, semplicemente non doveva esserci.

LuAnn si avvicinò cauta, dando uno sguardo più attento. Nulla che potesse fornire indicazioni sul guidatore. I sedili anteriori, con telefono cellulare sul ponte intermedio, erano foderati di pelle bianca con rifiniture di cuoio color porpora. L’interno dell’auto era assurdamente tirato a lustro, la plancia talmente lucida che quasi ci volevano gli occhiali scuri per guardarla. Le chiavi erano state lasciate nel quadro, con il portachiavi a forma di lattina di birra Budweiser. Forse Duane Harvey era definitivamente andato fuori di testa e aveva comprato questo cesso su ruote a raggi.

LuAnn salì i due gradini di mattoni di cemento. Rimase in ascolto fuori della porta a zanzariera. Silenzio. Decise di entrare. A Duane aveva già spaccato il grugno una volta, poteva farlo anche una seconda.

— Duane?

Sbatté violentemente la porta della Airstream.

— Che diavolo fai, Duane? È tua quella roba qua fuori?

Nessun rumore, nemmeno un respiro. LuAnn mise Lisa col seggiolino a terra e avanzò verso il fondo della roulotte.

— Duane? Mi rispondi o cosa? Non ho tempo per gli scherzi.

Si affacciò nella stanza da letto, ma Duane non c’era. Gli occhi corsero alla sveglia di sua nonna: fu la prima cosa che fece sparire nella borsa. Non l’avrebbe mai lasciata, mai. Arretrò nel corridoio, fino a Lisa. La piccola era agitata. LuAnn posò la borsa accanto al seggiolino e fece una breve sosta per calmarla. Intanto scrutò verso la parte anteriore della roulotte.