Выбрать главу

Il sorriso scomparve dalle labbra di Matthew con la stessa rapidità con la quale era comparso: «Strangolamento erotico, masochismo, stregoneria e altri generi di comportamento sessuale deviante».

Thora rimase di sasso.

«Non sono certa di aver compreso bene di che cosa si tratti o di come si svolgano quelle attività.» Ma se quello era sesso, lei preferiva indubbiamente il non-sesso che ultimamente aveva praticato.

Il sorriso che ricomparve sulle labbra di Matthew aveva perduto la gentilezza di prima: «Oh, se ne renderà presto conto. Non si preoccupi».

Entrambi terminarono di bere il loro caffè in completo silenzio, poi Thora prese le due cartelle e si preparò per ritornare in ufficio. I due si misero d’accordo per incontrarsi di nuovo l’indomani e si salutarono.

Mentre la donna stava per allontanarsi dal tavolo, Matthew le posò una mano sul braccio. «Una cosa ancora per finire, frau Gudmundsdottir.»

Thora si voltò.

«Mi sono dimenticato di dirle perché siamo così sicuri che l’individuo nelle mani della polizia non sia il vero colpevole.»

«Perché?»

«Perché non aveva con sé gli occhi di Harald.»

3

Thora in genere non temeva né furti né scippi, ma rientrando dal suo appuntamento con Matthew badò bene a tenersi stretta la borsa con i documenti. Non poteva rischiare di doverlo chiamare per comunicargli che le era stato rubato il dossier e tirò un sospiro di sollievo nell’oltrepassare la soglia dello studio legale.

All’ingresso venne investita da una nuvola di fumo: «Bella, lo sai benissimo che qui è vietato fumare!»

Bella trasalì dietro l’anta della finestra aperta e gettò via qualcosa in fretta e furia.

«Non stavo affatto fumando», protestò, sbuffando una leggera nuvoletta dal lato sinistro della bocca.

Thora sospirò: «Stai attenta, allora, perché ti si sta incendiando la bocca!» e aggiunse: «Chiudi la finestra e vai a fumare nell’angolino della sala caffè. Starai senz’altro meglio che affacciata lì».

«Non stavo affatto fumando, ma scacciavo i piccioni dal davanzale», insisté Bella con aria offesa. Poi si sedette alla scrivania senza rivolgere lo sguardo alla sua datrice di lavoro.

Thora decise di lasciar perdere. L’esperienza le aveva insegnato che non serviva a niente mettersi a discutere con quella ragazza e preferì ritirarsi nel suo ufficio, chiudendosi la porta alle spalle.

La cartella che Matthew le aveva consegnato era piena zeppa dì documenti e spessi dossier, e il colore nero della copertina si addiceva al suo contenuto. Non c’era nessuna etichetta, il che, in un certo senso, era logico dato che sarebbe stato difficile trovare un nome che non fosse di cattivo gusto.

«Harald Guntlieb in vita e in morte», disse Thora tra le labbra aprendo la cartella e osservando l’indice meticolosamente strutturato. I dossier erano stati divisi, tramite fogli numerati di diverso colore, in sette categorie che sembravano disposte in ordine cronologico: Germania, Leva, Università di Monaco, Università d’Islanda, Conti correnti, Indagine. Il settimo e ultimo capitolo aveva per titolo Autopsia. Thora decise di sfogliare il contenuto della cartella nello stesso ordine in cui si trovava. Dando un’occhiata all’orologio vide che erano già le due e sicuramente non avrebbe fatto in tempo a leggere tutto per le cinque, quando avrebbe dovuto prendere sua figlia Soley da scuola, quindi decise di dare soltanto una rapida scorsa ai documenti. Puntò dunque la sveglia del suo telefonino alle cinque meno un quarto: di portarsi a casa il fascicolo non ne aveva affatto voglia, benché altre volte le fosse capitato di dover concludere casi oltre l’orario di ufficio nei periodi più intensi di lavoro. Ma il contenuto di questa cartella rendeva impensabile lasciarla alla portata di due minorenni. Thora sfogliò il primo foglio colorato e cominciò a leggere.

Nella parte superiore della prima pagina c’era la fotocopia di un certificato di nascita, dal quale si poteva leggere che la signora Amelia Guntlieb aveva partorito un figlio maschio, sano, a Monaco, il 18 giugno 1978. Il signor Johannes Guntlieb, bancario, era registrato come padre del bambino. Thora non aveva mai sentito il nome della clinica ostetrica dove era nato Harald: non era un ospedale pubblico, per cui Thora dedusse che si trattava di qualche costosissima clinica privata per l’alta borghesia bavarese. Sotto la dicitura «credo religioso» era stato dattilografato «cattolico». Thora ricordava vagamente che più di un terzo dei tedeschi era cattolico e che la percentuale era assai più alta nel Sud della Germania. Durante i suoi anni di studi in quel Paese, Thora si era quasi meravigliata della grande quantità di cattolici, dato che aveva sempre collegato i tedeschi con Lutero e la fede protestante. Beata ignoranza!

Le pagine successive, di plastica, erano state suddivise in quattro sezioni, ognuna con fotografie della famiglia Guntlieb in occasioni diverse. Ogni immagine era accompagnata da una etichetta con i nomi delle persone che vi comparivano. A prima vista, Harald era presente in tutte. Oltre alle istantanee di famiglia erano state incluse delle foto di classe di diversi periodi scolastici, nelle quali Harald compariva ben pettinato e vestito di tutto punto, come si usa in tali occasioni. Thora non riusciva a capire perché mai quelle foto fossero state incluse in quell’atipico album di famiglia. L’unica spiegazione plausibile era che avessero la funzione di ricordarle che persino la vittima, un tempo, era stata un bambino, un figlio, un fratello. Il che ebbe l’effetto desiderato.

Nelle prime fotografie, che erano anche le più vecchie, si ammirava un bel pupo grassoccio con il fratello, che sembrava avere due o tre anni più di lui, o con la madre. Thora fu colpita dalla raggiante bellezza di Amelia Guntlieb e, nonostante la scarsa qualità delle immagini, era evidente che si trattava di una di quelle donne che rimangono sempre bellissime senza alcuno sforzo. Una foto dei due, in particolare, aveva attratto la sua attenzione: la madre insegnava al figlio a camminare. In giardino, la signora Guntlieb teneva per le mani il bimbo che tentava di muovere i primi, impacciati passi: una gamba col piede per aria e l’altra piegata sul ginocchio. Frau Guntlieb sorrideva al fotografo e la felicità le risplendeva in volto. La voce glaciale che Thora aveva udito al telefono non si addiceva affatto a quel viso radioso. Il bimbo aveva quell’età in cui il volto non è ancora finemente marcato a causa delle guance paffute e del nasino a patata, ma si notava comunque tra i due una forte somiglianza.

Nelle istantanee successive Harald aveva due o tre anni e la somiglianza con la madre era ormai diventata marcatissima. Amelia, che compariva in tutte le foto, era prima incinta, poi sorridente con un neonato in braccio, avvolto in un soffice e delicato porte-enfant. In una di queste, Harald era in piedi accanto alla sedia sulla quale sedeva la signora e allungava il collo come per guardare la piccola, sua sorella, mentre la madre gli posava una mano sulla spalla. Nella didascalia di sotto si poteva leggere che la bambina aveva ricevuto, al battesimo, il nome di sua madre, e come secondo nome Maria. Quindi si trattava della figlia deceduta per una malattia congenita. A giudicare dalla foto, la famiglia ancora non si era resa conto che la bimba era gravemente malata. La madre, per lo meno, sembrava beata e priva di preoccupazioni, mentre nelle immagini che seguivano era evidente il cambiamento. La signora Guntlieb, che fino ad allora era apparsa sorridente e serena in ogni immagine, sembrava ora triste e assente, oppure accennava un sorriso di convenienza, ma i suoi occhi tradivano inquietudine. Tra lei e Harald, inoltre, non c’era più il contatto che aveva caratterizzato le foto più vecchie e anche il piccolo appariva abbacchiato e sperduto. La bambina era svanita nel nulla.