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— Girati senza fretta — disse una voce vellutata. — O di’ addio ai tuoi reni.

La folla l’osservava interessata. Si annunciava una giornata davvero memorabile.

Scuotivento si girò lentamente; sentiva la punta della spada grattargli le costole. All’estremità della lama riconobbe Stren Giunco: ladro, spadaccino crudele, concorrente insoddisfatto al titolo di uomo più cattivo del mondo.

— Salve — disse debolmente. Qualche passo più in là, due tizi dall’aspetto poco rassicurante avevano alzato il coperchio del Bagaglio e si indicavano eccitati le borse d’oro. Giunco sorrise. Sulla sua faccia solcata dalle cicatrici il sorriso ebbe un effetto sinistro.

— Ti conosco — disse. — Un mago da strapazzo. Che cos’è quella cosa?

Scuotivento si accorse che il coperchio del Bagaglio tremava leggermente, benché non ci fosse vento. E lui teneva ancora in mano la scatola a immagini.

— Questa? Serve a riprendere delle immagini — rispose in tono vivace. — Ehi, continua a sorridere, vuoi? — Indietreggiò rapido e puntò la scatola.

Giunco ebbe un attimo di esitazione. — Cosa?

— Bene così, non muoverti… — disse Scuotivento.

Il ladro rimase fermo, poi con un ringhio alzò la spada.

Ci fu uno snap e un duetto di grida tremende. Scuotivento non si guardò intorno per paura delle cose terribili che poteva vedere e quando Giunco lo cercò, lui era già dall’altro lato della piazza che se la dava a gambe.

L’albatro scendeva lentamente in larghi giri concentrici che terminarono in un arruffio di penne e un tonfo poco dignitosi quando atterrò pesantemente sulla sua piattaforma nel giardino degli uccelli del Patrizio.

Il custode degli uccelli sonnecchiava al sole; non si aspettava così presto un altro messaggio a lunga distanza dopo l’arrivo di quello del mattino. Saltò in piedi e sollevò lo sguardo.

Poco dopo si affrettava per i corridoi del palazzo; teneva in mano la capsula col messaggio e si succhiava la brutta ferita infertagli sul dorso dal becco dell’animale, ferita dovuta alla sua sbadataggine causata dalla sorpresa.

Scuotivento galoppava per il viale senza badare agli urli di rabbia provenienti dalla scatola; scavalcò un alto muro con la tunica sfilacciata che gli ondeggiava intorno come le piume arruffate di una cornacchia.

Atterrò nel cortile davanti a un negozio di tappeti, sparpagliando mercanzia e clientela, uscì a precipizio sul retro borbottando delle scuse, sfrecciò lungo un altro viale e si arrestò, barcollando pericolosamente, proprio mentre inavvertitamente stava per finire dentro l’Ankh.

Si dice ci siano dei fiumi mistici di cui una sola goccia si porta via la vita di un uomo. Dopo il suo torbido passaggio attraverso la città gemella, l’Ankh avrebbe potuto essere uno di questi.

A distanza gli urli di rabbia presero una nota stridula di terrore. Scuotivento si guardò disperatamente intorno in cerca di una barca o qualcosa a cui aggrapparsi sui ripidi muri da entrambi i lati.

Era in trappola.

L’Incantesimo si formò, spontaneo, nella sua mente. Forse era improprio dire che lui l’aveva appreso. Era vero il contrario. L’episodio aveva condotto alla sua espulsione dall’Università Invisibile perché, per una scommessa, lui aveva osato aprire le pagine dell’ultima copia rimasta dei libro del Creatore, l’Ottavo (mentre il bibliotecario dell’Università era occupato altrove). L’incantesimo era balzato fuori dalla pagina e gli si era introdotto nella mente, così a fondo che nemmeno gli sforzi combinati dei sapientoni della Facoltà di Medicina erano stati capaci di farlo venire fuori. Quale fosse di preciso, erano stati pure incapaci di accertare. Sapevano soltanto che era uno degli otto incantesimi basilari, indissolubilmente intrecciati con il tessuto stesso del tempo e dello spazio.

Da allora aveva mostrato la preoccupante tendenza a cercare di essere pronunciato ogni volta che Scuotivento si sentiva depresso o particolarmente minacciato.

Il mago strinse i denti ma la prima sillaba si fece strada a forza all’angolo della bocca. Senza volerlo, la sua mano sinistra si sollevò e, mentre la magica forza gli turbinava intorno, prese a mandare scintille di ottarino…

Il Bagaglio spuntò di corsa dall’angolo, con le centinaia di ginocchia in movimento come pistoni.

Scuotivento spalancò la bocca dalla sorpresa. L’incantesimo morì, impronunciato.

Non sembrava che la cassa fosse minimamente impacciata dal parato ornamentale spavaldamente drappeggiato su di lei, né dal ladro che penzolava con un braccio dal coperchio. Era, letteralmente, un peso morto. Più in là sul coperchio si scorgevano i resti di due dita, proprietario sconosciuto.

Il Bagaglio si fermò a qualche centimetro dal mago e ritrasse le gambe. Non pareva che fosse dotato di occhi, ma Scuotivento era sicuro che lo stava fissando. In attesa.

— Sciò! — esclamò lui debolmente. La cassa non si mosse, ma il coperchio si aprì con un cigolio e lasciò cadere a terra il ladro morto.

Scuotivento si ricordò dell’oro. Presumibilmente la cassa doveva avere un padrone. In assenza di Duefiori, lei lo aveva forse adottato?

La marea stava cambiando e, nella gialla luce pomeridiana, la corrente trascinava i rottami verso la Chiusa, a solo cento metri più giù. Ci volle un attimo perché il cadavere del ladro li raggiungesse. Anche se in seguito l’avessero trovato, non ci sarebbero stati commenti. E i pescecani dell’estuario erano usi a pasti solidi e regolari.

Scuotivento guardò il corpo scivolare via e rifletté alla sua prossima mossa. Probabilmente il Bagaglio avrebbe galleggiato. Non gli restava che attendere il crepuscolo e poi andarsene con la marea. Più a valle c’era una quantità di luoghi selvaggi dove approdare e poi… be’, se davvero il Patrizio aveva diramato un avviso sul suo conto, allora sarebbe bastato cambiarsi d’abito e radersi. In ogni caso, esistevano altri paesi e lui aveva facilità per le lingue. Bastava arrivare a Chimera o Gonim o Ecalpon e mezza dozzina di armate non avrebbero potuto riportarlo indietro. E poi… ricchezza, comodità, sicurezza…

Naturalmente sussisteva il problema di Duefiori. Scuotivento si lasciò andare a un attimo di tristezza.

"Poteva andare peggio" si disse a mo’ di addio. "’Potevo essere io".

Quando provò a muoversi, sentì la tunica impigliata in un ostacolo.

Allungò il collo e scoprì che l’orlo era saldamente trattenuto dal coperchio del Bagaglio.

— Ah, Gorphal — lo salutò benevolo il Patrizio. — Vieni. Siediti. Posso offrirti una medusa candita?

— Sono ai vostri ordini, padrone — rispose calmo il vecchio. — Salvo, forse, quando si tratta di echinodermi conservati.

Il Patrizio alzò le spalle e gli indicò il rotolo di pergamena sul tavolo. — Leggilo — gli disse.

Gorphal prese la pergamena e inarcò a malapena un sopracciglio quando vide i familiari ideogrammi dell’Impero Dorato. Lesse in silenzio per circa un minuto e poi girò il rotolo per esaminare attentamente il sigillo sul rovescio.

— Tu hai fama di conoscere a fondo gli affari dell’Impero — disse il Patrizio. — Puoi darmi una spiegazione?

— Per quanto riguarda l’Impero la conoscenza non sta tanto nel notare eventi particolari quanto nello studiare una certa forma mentis — dichiarò il vecchio diplomatico. — Il messaggio è curioso, sì, ma non sorprendente.

— Questa mattina l’Imperatore mi ha incaricato… - Il Patrizio si concesse il lusso di un cipiglio — … mi ha incaricato, Gorphal, di proteggere questo Duefiori. Adesso pare che io debba farlo uccidere. Tu non lo trovi sorprendente?

— No. L’imperatore è poco più di un ragazzo. È un… idealista. Intelligente. Un dio per il suo popolo. Mentre la lettera di questo pomeriggio, se non vado errato, proviene dal Gran Visir, Nove Specchi Girevoli, che è invecchiato al servizio di diversi imperatori. Che lui considera ingredienti necessari ma fastidiosi per il buon governo dell’Impero. Non gli piacciono le cose fuori posto. L’Impero non è stato costruito permettendo che ciò accada. Lui la pensa così.