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Dentro c’erano dei biscotti che si rivelarono duri come legno diamantifero.

— Accidentaccio — borbottò, toccandosi i denti.

— I Digestivi per viaggiatori del Capitano Eightpanther, si chiamano — annunciò il diavoletto dalla soglia della sua scatola. — Hanno salvato parecchie vite in mare, quelli.

— Oh, sicuro. Li usate come zattera oppure li buttate ai pescecani e li guardate affondare? Cosa c’è nelle bottiglie? Veleno?

— Acqua.

— Ma c’è acqua dappertutto! Perché Duefiori avrebbe dovuto portarsi dietro l’acqua?

— Fidati.

— Fidarmi?

— Sì. Lui non si è fidato dell’acqua di qui. Capisci?

Scuotivento aprì una bottiglia. Il liquido dentro poteva anche essere dell’acqua. Non la minima fragranza, né traccia di vita. — Né sapore né odore — brontolò il mago.

La sua attenzione fu attratta da un leggero scricchiolio proveniente dal Bagaglio, il quale con una mossa pigra piena di calcolata minaccia richiuse lentamente il coperchio e triturò come una foglia secca la zeppa di fortuna di Scuotivento.

— Va bene, va bene — disse lui. — Sto riflettendo.

Il quartier generale di Ymor si trovava nella Torre Pendente, all’incrocio di Rime Street e Frost Alley. A mezzanotte l’unica guardia che si teneva nell’ombra alzò gli occhi a guardare la congiunzione dei pianeti e si chiese oziosamente quali cambiamenti preannunziavano nelle sue fortune.

Si udì un suono appena percettibile, come lo sbadiglio di una zanzara.

La guardia lanciò un’occhiata alla strada deserta e vide il riflesso della luce lunare brillare su qualcosa che giaceva nel fango a qualche metro di distanza. La raccolse. Era oro. Tirò il fiato così rumorosamente che echeggiò per la via.

Di nuovo un suono lieve e un’altra moneta rotolò nel rigagnolo dal lato opposto della strada.

Non fece in tempo a raccoglierla che ne arrivò una terza ancora roteante. L’oro, ricordò, si credeva fosse formato dalla luce cristallizzata delle stelle. Fino a quel momento non ci aveva creduto, che una cosa pesante come l’oro potesse cadere naturalmente dal cielo.

Aveva appena raggiunto l’imboccatura della strada, che altre ne vennero giù. Nella borsa c’era ancora un’enorme quantità di pezzi d’oro e Scuotivento glieli rovesciò sulla testa.

Quando la guardia rinvenne si trovò davanti la faccia di un mago dagli occhi spiritati, che lo minacciava alla gola con una spada. Nell’oscurità qualcosa lo afferrava alla gamba. Una presa sconcertante: lasciava intendere che, volendo, chi lo teneva poteva aumentare di parecchio la stretta.

— Dove si trova il ricco straniero? — sibilò il mago. — Presto!

— Che cosa mi stringe la gamba? — Nella voce dell’uomo vibrava una nota di terrore. Tentò di divincolarsi e la pressione aumentò.

— Saperlo non ti piacerebbe — lo minacciò Scuotivento. — Fa attenzione, per piacere. Dov’è il forestiero?

— Non è qui! L’hanno portato dal Grosso. Tutti lo cercano! Tu sei Scuotivento, vero? La cassa… la cassa che azzanna la gente… ononono… ti preego…

Scuotivento non c’era più. La guardia sentì il suo assalitore allentare la presa… o, come cominciava a temere, la cosa allentare la presa. Cercò di rimettersi in piedi e si sentì investire nel buio da un oggetto grosso, pesante, squadrato che si buttò all’inseguimento del mago. Un oggetto con centinaia di piccoli piedi.

Duefiori si sforzava, con il solo ausilio del suo dizionarietto autarchico, di spiegare al Grosso i misteri della famosa formula che aveva già snocciolato a Scuotivento. Il grasso taverniere lo ascoltava attento, con gli occhietti neri scintillanti.

Seduto all’estremità del tavolo Ymor li osservava con blando divertimento e di tanto in tanto nutriva uno dei suoi corvi con gli avanzi del suo piatto. Accanto a lui, Giunco camminava su e giù.

— Ti agiti troppo — gli disse Ymor senza staccare gli occhi dai due uomini di fronte a lui. — Lo sento, Stren. Chi oserebbe attaccarci qui? E quel mago da strapazzo verrà. È troppo codardo per non farlo. E cercherà di mercanteggiare. E noi lo terremo in pugno. Lui e l’oro e la cassa.

L’unico occhio di Giunco mandò un lampo e lui si batté il pugno sul palmo della mano guantata di nero.

— Chi avrebbe immaginato che in tutto il disco ci fosse tanto legno del pero sapiente? — esclamò. — Come avremmo potuto saperlo?

— Ti agiti troppo, Stren — ripeté Ymor. — Sono sicuro che questa volta farai meglio.

Il suo luogotenente sbuffò dal disgusto e fece il giro del locale per strapazzare i suoi uomini. Ymor continuò a fissare il turista.

Era strano, ma l’ometto non pareva rendersi conto della gravità della sua situazione. Ymor l’aveva visto più volte guardarsi intorno con aria di profonda soddisfazione. Era anche un pezzo che parlava col Grosso e Ymor aveva visto un pezzo di carta cambiare di mano. E il Grosso aveva dato delle monete allo straniero. Era strano.

Quando il Grosso si alzò e passò accanto alla sua seggiola, il braccio del mastro ladrone scattò come una molla d’acciaio e trattenne il grassone per il grembiule.

— Che stavate facendo, amico? — gli chiese a voce bassa.

— N-niente, Ymor. Semplicemente degli affari privati, diciamo.

— Tra amici non ci sono segreti, Grosso.

— Già. Be’, non ne sono sicuro nemmeno io, davvero. È una specie di scommessa, capisci? — disse nervosamente l’albergatore. — Si chiama… assi-cura-zione. - È una specie di scommessa che il Tamburo Rotto non sarà distrutto da un incendio.

Ymor continuò a fissarlo finché il Grosso non si contorse dalla paura e dall’imbarazzo. Poi il mastro ladrone scoppiò a ridere.

— Questo ammasso di vecchie travi rose dai vermi? — disse. — Quell’uomo deve essere matto.

— Sì, ma un matto con i quattrini. Sostiene che adesso che ha ottenuto il… non posso ricordarmi la parola, comincia con una P, sarebbe quello che si chiama posta della scommessa, la gente per cui lui lavora nell’Impero Agateo pagherà. Se il Tamburo Rotto sarà distrutto dall’incendio. Non che io speri che lo sia. Bruciato. Il Tamburo Rotto, intendo. Voglio dire, per me è come una casa, il Tamburo…

— Non sei completamente stupido, vero? — disse Ymor e mandò via il taverniere.

La porta si spalancò e sbatté contro la parete.

— Ehi, quella è la mia porta! — urlò il Grosso. Scoprì chi era colui che si era fermato in cima alle scale, e si tuffò dietro un tavolo, appena in tempo prima che una corta freccia nera volasse attraverso il locale e si conficcasse nel legno.

Muovendosi con precauzione, Ymor si versò un’altra pinta di birra.

— Non vorresti farmi compagnia, Zlorf? — lo invitò senza scomporsi. — E tu, Stren, metti via quella spada. Zlorf Flannelfoot è amico nostro.

Il presidente della Corporazione degli Assassini roteò con destrezza la corta arma e la rinfoderò in un solo agile movimento.

— Stren! — lo richiamò Ymor.

Il ladro nerovestito fece un sibilo e rimise la spada nel fodero. Ma mantenne la mano sull’elsa e gli occhi sull’assassino.

Non gli fu facile. Nella Corporazione degli Assassini la promozione si otteneva grazie a un esame competitivo, di cui la parte più importante, anzi l’unica, consisteva nella prova pratica. Così la larga, onesta faccia di Zlorf era solcata da cicatrici, risultato di tanti scontri ravvicinati. Probabilmente non sarebbe stata mai molto piacevole da vedersi. Si diceva che Zlorf aveva scelto una professione nella quale cappucci scuri, mantelli e vagabondaggi notturni avevano una larga parte perché nel suo parentado c’era un ramo trollesco che temeva la luce del giorno.

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