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«S... sì, signore,» balbettò, imbarazzato nel sentirsi rivolgere la parola da un così grande eroe. «I... il cavallo è pronto, devo portartelo a... adesso, signore?»

«No.» Tanis sorrise. «Prima mangerò qualcosa. Portalo fra due ore.»

«D... due ore. Sì, signore. Grazie, signore.» Ciondolando la testa il ragazzo prese le redini che Tanis gli schiacciava dentro la mano intorpidita, poi rimase là, immobile, a bocca aperta, dimenticandosi del tutto del suo compito fino a quando il cavallo impaziente non lo spinse facendolo quasi cadere per terra.

Mentre il ragazzo si affrettava ad allontanarsi, conducendo via il cavallo di Tanis, il mezzelfo si girò per aiutare la sua compagna a scendere di sella.

«Devi essere fatto di ferro,» lei commentò, fissandolo, mentre lui l’aiutava a smontare. «Davvero intendi proseguire il tuo viaggio stanotte stessa?»

«A dire il vero non c’è osso del mio corpo che non mi faccia spasimare,» cominciò a dire Tanis, poi tacque, sentendosi a disagio. Semplicemente, era incapace di sentirsi a suo agio quand’era vicino a quella donna.

Tanis scorgeva il suo viso al riflesso della luce che s’irradiava dalla locanda. Vide fatica e dolore. I suoi occhi erano infossati nelle guance pallide e scavate. Barcollò, quando mise piede al suolo, e Tanis fu svelto a porgerle il braccio perché potesse appoggiarvisi. Lei si appoggiò, ma solo per un attimo. Poi, drizzandosi, lo spinse via, gentile ma ferma, e rimase lì, sola, lanciando un’occhiata intorno a sé senza mostrare alcun interesse.

Il minimo movimento provocava fitte di sofferenza a Tanis, il quale poteva ben immaginare come doveva sentirsi quella donna, per nulla abituata alle fatiche fisiche e alle privazioni, e sia pure riluttante si trovò ad ammirarla. Non si era lamentata una sola volta durante il loro lungo e spaventevole viaggio. Era rimasta al passo con lui senza mai restare indietro, e obbedendo alle sue istruzioni senza discutere.

Perché mai allora, si chiedeva, non riusciva a provare niente per lei? Che cosa c’era in lei che lo irritava e lo infastidiva? Guardando il suo volto Tanis trovò la risposta. L’unico calore in esso era quello riflesso dalla luce della locanda. Perfino adesso che appariva esausta, il suo volto era freddo, impassibile, privo di... che cosa? Così era stata per tutto quel lungo, pericoloso viaggio. Oh, era stata gelidamente cortese, gelidamente grata, gelidamente distante, remota. Con tutta probabilità mi avrebbe sepolto con altrettanta freddezza, pensò Tanis, cupo. Poi, come per rimproverarsi di aver avuto simili pensieri irriverenti, il suo sguardo venne attratto dal medaglione che la donna portava al collo, il Drago di Platino di Paladine. Ricordò le parole di commiato di Elistan, dette in privato poco prima dell’inizio del viaggio.

«È opportuno che tu la scorti, Tanis,» aveva detto il chierico ormai fragile nel corpo. «Sotto molti aspetti lei inizia un viaggio molto simile al tuo di tanti anni fa... alla ricerca dell’autocoscienza. No, hai ragione, lei non lo sa ancora.» Questo in risposta all’espressione dubbiosa di Tanis. «Lei cammina con lo sguardo fisso al cielo.» Elistan aveva avuto un triste sorriso. «Lei non ha ancora imparato che, così facendo, si finisce inevitabilmente per inciampare. A meno che non impari, la sua caduta potrebbe essere dolorosa.» Scuotendo la testa, aveva mormorato una sommessa preghiera. «Ma noi dobbiamo riporre la nostra fiducia in Paladine.»

Allora Tanis aveva corrugato la fronte, e la corrugò anche adesso, nel ricordare tutto questo. Anche se era arrivato ad avere una robusta fede nei veri dei - per l’amore e la fede che Laurana aveva in essi più che per qualsiasi altra cosa - si sentiva a disagio nel dover affidare la propria vita a loro, e diventava insofferente con quelli come Elistan che, a quanto pareva, addossavano agli dei un fardello troppo grande. Che l’uomo fosse responsabile di sé, tanto per cambiare, pensò Tanis, irritato. «Che cosa c’è, Tanis?» gli chiese Crysania con freddezza. Rendendosi conto di aver continuato a fissarla per tutto quel tempo, Tanis tossì imbarazzato, si schiarì la gola e guardò altrove. Per fortuna il giovane stalliere tornò in quel momento per prendere il cavallo di Crysania, risparmiando a Tanis la necessità di rispondere. Tanis indicò Con un gesto la locanda, e s’incamminò con Crysania verso di essa.

«A dire il vero,» disse Tanis quando il silenzio cominciò a farsi imbarazzante, «niente mi piacerebbe di più che rimanere qui e far visita ai miei amici. Ma devo essere a Qualinesti dopodomani, e soltanto cavalcando senza sosta riuscirò ad arrivare in tempo. I miei rapporti con mio cognato non sono tali da potermi permettere di offenderlo mancando al funerale di Solostaran.»

Poi aggiunse con un tetro sorriso: «Sia politicamente che personalmente, se capisci quello che voglio dire.» Crysania sorrise a sua volta ma, Tanis se ne avvide, non era un sorriso di comprensione. Era un sorriso di tolleranza, come se quel discorso non fosse al suo livello.

Avevano raggiunto la porta della locanda. «Inoltre,» aggiunse Tanis con voce sommessa, «sento la mancanza di Laurana. È strano, vero? quando mi è vicina e siamo impegnati a svolgere i nostri compiti, talvolta passano giorni in cui ci rivolgiamo soltanto un rapido sorriso od una carezza, e poi torniamo a scomparire nei nostri mondi. Ma quando sono stato lontano da lei, è come se mi svegliassi all’improvviso scoprendo che mi hanno reciso il braccio destro. Potrei anche non andare a letto pensando al mio braccio destro, ma una volta che non c’è più...» Tanis si azzittì di colpo sentendosi sciocco, timoroso di apparire come un adolescente ammalato d’amore. Ma si avvide che, con ogni apparenza, Crysania non gli prestava la minima attenzione. Il suo liscio volto di marmo era diventato, semmai, ancora più freddo, fino a far apparire calda, al suo confronto, la luce della luna.

Scuotendo la testa, Tanis aprì la porta, spingendola.

Non invidio Caramon o Riverwind, pensò, cupo.

I suoni e gli odori caldi e familiari della locanda investirono Tanis e, per lunghi istanti, ogni cosa fu una macchia confusa. Lì c’era Otik, ancora più vecchio e più grasso se mai era possibile, appoggiato a un bastone, e gli batteva una mano sulla schiena. Lì c’era gente che lui non vedeva da anni, che non aveva avuto molto a che fare con lui prima, che adesso gli stringeva la mano e riaffermava la più calda amicizia. Qui c’era il vecchio bancone ancora lucidato a specchio, e lui, in qualche modo, riuscì a inciampare su un nano dei burroni...

E poi c’era un uomo alto, avvolto in pellicce, e Tanis si trovò stretto all’interno del caldo abbraccio dell’amico.

«Riverwind,» bisbigliò con voce rauca, tenendosi saldamente stretto all’uomo delle pianure.

«Fratello mio,» disse Riverwind in queshu, la lingua del suo popolo. La folla della locanda applaudiva come impazzita, ma Tanis non la sentì perché una donna dai fiammeggianti capelli rossi e con una spruzzata di lentiggini gli aveva appoggiato la mano sul braccio. Allungando a sua volta una mano, sempre tenendo stretto Riverwind, Tanis accolse Tika nel loro abbraccio e per lunghi momenti i tre amici si tennero stretti l’uno all’altro - legati dal dolore, dalla sofferenza e dalla gloria.

Riverwind li riportò alla realtà. Per nulla abituato a simili, pubbliche esibizioni di emozioni, l’alto uomo delle pianure riprese la sua compostezza con un poderoso colpo di tosse e si tirò indietro, ammiccando più volte e guardando il soffitto, corrugando al tempo stesso la fronte fino a quando non fu di nuovo padrone di sé. Tanis, con la barba rossa inumidita dalle proprie lacrime, strinse in un ultimo, rapido abbraccio Tika, poi si guardò intorno.

«Dov’è quello zoticone di tuo marito?» chiese con allegria. «Dov’è Caramon?»

Era una semplice domanda e Tanis era del tutto impreparato alla reazione. La folla si azzittì del tutto; pareva che qualcuno avesse chiuso i presenti in un barile. Il volto di Tika avvampò d’un cupo rossore, poi borbottò qualcosa d’inintelligibile e, chinandosi, tirò su di peso dal pavimento il nano dei burroni e lo scosse tanto da fargli sbattere violentemente i denti.