Il Minotauro Rosso si voltò per affrontare quella nuova sfida, con un sogghigno sulla faccia rossa e pelosa. Vedendo Caramon armato soltanto di una spada corta, il sogghigno del minotauro si allargò.
Scagliandosi addosso a Caramon, il minotauro cercò di affrettare la fine del combattimento. Ma Caramon lo schivò con destrezza; sollevando il piede sferrò un calcio, frantumando la rotula del minotauro. Fu un colpo doloroso e paralizzante, che lo fece ruzzolare al suolo.
Sapendo che il suo avversario era fuori combattimento, almeno per qualche istante, Caramon corse accanto a Pheragas. Il nero era ancora rannicchiato al suolo e si stringeva lo stomaco.
«Suvvia,» grugnì Caramon, cingendolo alla vita con un braccio. «Ti ho visto altre volte beccarti colpi del genere per poi alzarti e andare a trangugiare un pasto di cinque portate. Cosa succede?»
Ma non vi fu risposta. Caramon sentì il corpo dell’uomo tremare con- v vulsamente, e vide che la lucida pelle nera era bagnata di sudore. Poi Caramon vide i tre tagli sanguinanti che il tridente aveva lasciato sul braccio di Pheragas...
Pheragas sollevò lo sguardo verso il suo amico. Vedendo l’orrore nei suoi occhi, si rese conto che Caramon aveva capito. Rabbrividendo per il dolore causatogli dal veleno che scorreva nelle sue vene, Pheragas cadde in ginocchio. Il grosso braccio di Caramon lo cingeva alla vita.
«Prendi... prendi la mia spada.» Pheragas soffocò. «Presto, sciocco!» Sentendo, dai suoni che produceva il suo nemico, che il minotauro era di nuovo in piedi, Caramon esitò solo un istante, poi prese la grande spada dalla mano di Pheragas.
Pheragas rantolò al suolo contorcendosi per il dolore.
Stringendo la spada, con le lacrime che gli accecavano gli occhi, Caramon si sollevò e si girò di scatto, bloccando l’improvviso affondo del minotauro. Anche se zoppicava da una gamba, la forza del minotauro era tale da riuscire a compensare facilmente quella dolorosa lesione. Inoltre il minotauro sapeva che bastava soltanto un nonnulla per uccidere la sua vittima, e Caramon avrebbe dovuto entrare nell’arco d’azione del tridente per usare la spada.
I due si guatarono, mentre si giravano intorno lentamente. Caramon non sentiva più la folla che pestava i piedi e fischiava e applaudiva impazzita alla vista del vero sangue. Non pensava più alla fuga, non aveva più alcuna idea di dove si trovasse. I suoi istinti di guerriero avevano preso il sopravvento. Sapeva una sola cosa: doveva uccidere.
E così, aspettò. Pheragas gli aveva insegnato che i minotauri avevano un grosso difetto. Credendosi indistintamente superiori a tutte le altre razze, i minotauri sottovalutavano l’avversario. Facevano errori, bastava aspettarli al varco. Il Minotauro Rosso non faceva eccezione. Caramon poteva avvertire con chiarezza i pensieri del minotauro: dolore e collera indignazione per l’insulto subito, il desiderio bramoso di metter fine alla vita di quell’insignificante e stupido umano.
I due si stavano avvicinando sempre di più al punto in cui Kiiri era ancora avvinta a Raag in un combattimento, che da quello che Caramon poteva giudicare dagli schianti, i ringhii e le urla acute dell’orco era feroce. D’un tratto, in apparenza distrattosi a guardare Kiiri, Caramon scivolò su una pozza di viscido sangue giallo. Il Minotauro Rosso, ululando deliziato, si scagliò in avanti per impalare sul tridente quel corpo umano
Ma la scivolata era una finta. La spada di Caramon balzò alla luce del sole. Il minotauro, avvedendosi di essere stato raggirato, cercò di riprendersi dallo slancio in avanti. Ma si era dimenticato del ginocchio lesionato. Questo non poteva sorreggere il suo peso, e il Minotauro Rosso crollò al suolo mentre la spada di Caramon troncava di netto quella testa bestiale.
Disincagliando la spada con uno strattone, Caramon udì un orribile ringhio alle sue spalle e si voltò giusto in tempo per vedere le mascelle della grande orsa che si chiudevano sul gigantesco collo di Raag. Con un energico scuotimento del capo, Kiiri morse in profondità la giugulare. j bocca dell’orco si spalancò in un urlo che nessuno avrebbe mai sentito
Caramon fece per avvicinarsi, quando notò un improvviso movimento alla sua destra. Si girò fulmineo, ogni nervo vibrante, quando Arack gli sfrecciò accanto: il volto del nano era un’orrenda maschera di dolore e di furore. Caramon vide balenare il pugnale nella mano del nano, e si lanciò in avanti, ma era ormai troppo tardi. Non riuscì a fermare la lama prima che affondasse nel petto dell’orsa. Subito la mano del nano fu innondata di caldo sangue rosso. La grande orsa ruggì per il dolore e la collera. Una enorme zampa saettò in avanti. Afferrando il nano con le ultime, convulse energie, Kiiri sollevò Arack e lo scagliò attraverso l’arena. Il corpo del nano andò a schiantarsi contro la Guglia della Libertà dov’era appesa la chiave d’oro, impalandosi su una delle numerose decorazioni argentate. Il nano cacciò un urlo stridulo, spaventoso, poi l’intero pinnacolo crollò, abbattendosi dentro il pozzo sottostante colmo di fiamme.
Kiiri cadde, il sangue sgorgava dallo squarcio che aveva sul petto. La folla era in delirio, gridava e urlava il nome di Caramon. L’omone non li sentiva. Chinandosi, prese Kiiri tra le braccia.
L’incantesimo che aveva intessuto si sciolse. L’orsa non c’era più, era Kiiri quella che stringeva al petto.
«Hai vinto, Kiiri,» bisbigliò Caramon. «Sei libera.»
Kiiri levò lo sguardo su di lui e sorrise. Poi i suoi occhi si spalancarono, la vita li lasciò. Il suo sguardo morente rimase fisso sul cielo, quasi (così parve a Caramon) in attesa, come se adesso sapesse quello che stava per accadere.
Dopo aver disteso delicatamente il suo corpo sul terreno dell’arena inzuppato di sangue, Caramon si risollevò. Vide il corpo di Pheragas immobilizzarsi negli ultimi spasimi dell’agonia. Vide gli occhi fìssi e ciechi di Kiiri.
«Risponderai di questo, fratello mio,» disse Caramon con voce sommessa.
Udì un rumore alle sue spalle, un mormorio come quello rabbioso d’un mare in tempesta. Truce in volto, Caramon strinse la spada e si voltò, preparandosi ad affrontare qualunque nuovo nemico l’aspettasse. Ma non c’era nessun nemico, soltanto gli altri gladiatori. Alla vista del volto di Caramon, macchiato di sangue e rigato dalle lacrime, si trassero da parte ad uno ad uno, facendogli strada.
Guardandoli, Caramon capì che, finalmente, era libero. Libero di cercare suo fratello, libero di metter fine per sempre alla schiavitù. Sentì la sua anima librarsi, la morte aveva poco significato per lui, e non gli faceva nessuna paura. L’odore del sangue era nelle sue narici, e si sentiva colmato dalla dolce follia della battaglia.
Adesso, in preda alla più intensa bramosia di vendetta, Caramon corse fino ai margini dell’arena, preparandosi a scendere le scale che conducevano giù nelle gallerie che correvano sotto di essa, quando il primo dei terremoti frantumò la città condannata di Istar.
Capitolo diciottesimo
Crysania non vide né udì Tasslehoff. La sua mente era accecata da una miriade di colori che turbinavano dentro le sue profondità, sfavillando come splendidi gioielli, poiché all’improvviso aveva capito. Era per questo che Paladine l’aveva riportata qui, non per redimere il ricordo del Gran Sacerdote, ma per imparare dai suoi errori. E sapeva, sapeva nella sua anima, di aver imparato.
Poteva appellarsi agli dei e questi le avrebbero risposto, non con la collera, ma con il potere! La fredda oscurità dentro di lei spezzò il guscio e la creatura liberata esplose alla luce del sole.
Come in una visione contemplò se stessa che teneva sollevato in alto con una mano il medaglione di Paladine, la cui superficie di platino lampeggiava al sole. Con l’altra mano chiamava a sé legioni di credenti, e questi si affollavano intorno a lei con espressioni rapite e adoranti mentre li conduceva verso terre di una bellezza al di là di ogni immaginazione.