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«E la sua gentilezza,» aggiunse Tanis, dopo un momento di silenziosa riflessione. «Ancora riesco a vederlo che accudisce Raistlin con tanta pazienza, tenendo suo fratello tra le braccia quando quegli accessi di tosse facevano quasi a pezzi il mago...»

Venne interrotto da un urlo soffocato, uno schianto e un tonfo. Voltandosi di scatto in preda allo stupore, Tanis vide Tika che lo fissava, il suo volto era bianco, i suoi occhi verdi luccicavano per le lacrime.

«Andate via, adesso!» lei li implorò attraverso le pallide labbra. «Ti prego, Tanis! Non fare nessuna domanda! Vai via e basta!» Lo afferrò per un braccio. Le sue unghie gli si affondarono dolorosamente nella pelle. «Ascoltami, in nome dell’Abisso, cosa sta succedendo, Tika?» chiese Tanis in preda all’esasperazione, alzandosi in piedi e fronteggiandola.

In risposta, vi fu uno schianto di legno scheggiato. La porta della locanda si spalancò di colpo, colpita dall’esterno da una forza tremenda. Tika balzò indietro, il suo volto distorto da una tale paura e da un orrore così intenso, mentre fissava la porta, che Tanis si affrettò a girarsi, la mano sulla spada, e Riverwind balzò in piedi.

Una grande ombra riempì la porta dando l’impressione di diffondere una nuvola tempestosa nella sala. L’allegria e le risate della folla s’interruppero di colpo, trasformandosi in borbottii sordi e rabbiosi.

Ricordando le creature tenebrose e malefiche che li avevano inseguiti, Tanis sfoderò la spada interponendosi fra l’ombra e Dama Crysania. Avvertì, anche se non la vide, la vigorosa presenza di Riverwind alle sue spalle, pronto ad appoggiarlo.

Così ci hanno raggiunto, pensò Tanis, accogliendo quasi con sollievo la possibilità di combattere quel vago e sconosciuto terrore. Cupo in volto, squadrò la porta mentre una figura rigonfia e grottesca accedeva alla luce.

Tanis vide che era un uomo, un uomo gigantesco, ma nel guardarlo con maggiore attenzione vide che era un uomo la cui enorme circonferenza era ridotta a carne floscia. Un ventre enfiato penzolava sopra stretti gambali di cuoio, una camicia sudicia era aperta all’ombelico, essendoci troppo poca camicia per coprire così tanta carne. La faccia dell’uomo, in parte oscurata da una barba di tre giorni, era arrossata e chiazzata in modo innaturale, i suoi capelli unti e scarmigliati. Gli indumenti che portava, seppur ben fatti e in origine anche eleganti, erano sporchi e avevano un intenso odore di vomito e del liquore grezzo noto come «spirito dei nani».

Tanis abbassò la spada sentendosi sciocco. Era soltanto un povero disgraziato ubriaco, con ogni probabilità il bullo del paese, che sfruttava le sue grandi dimensioni per intimorire la cittadinanza.

Fissò l’uomo con pietà e disgusto pensando, mentre lo faceva, che in lui c’era qualcosa di stranamente familiare. Con ogni probabilità, era qualcuno che aveva conosciuto quand’era vissuto a Solace tanto tempo addietro, qualche poveraccio che era incappato in tempi duri.

Il mezzelfo fece per voltarsi quando notò, con suo vivo stupore, che tutti nella locanda lo stavano guardando come se si aspettassero qualcosa da lui.

Che cosa vogliono da me? si chiese Tanis con improvvisa, fulminea rabbia. Che lo attacchi?

Bell’eroe che sarei a picchiare l’ubriacone della città!

Poi udì un singhiozzo lì accanto. «Ti avevo detto di andartene,» gemette Tika, accasciandosi su una sedia. Nascondendosi il volto tra le mani cominciò a piangere come se il suo cuore stesse per spezzarsi.

Sempre più sconcertato, Tanis lanciò un’occhiata a Riverwind, ma era ovvio che l’uomo delle pianure brancolava nella stessa oscurità del suo amico. Nel frattempo l’ubriaco era venuto avanti barcollando e si stava guardando intorno incollerito.

«Cos-sc’è quesc-ta? Una fesc-ta?» ringhiò. «E nesc-sciuno ha in-in-invitato-tato il loro vecchio... in-invitato me?»

Nessuno rispose. Gli avventori tenevano, nel più completo silenzio, gli sguardi puntati su Tanis, e adesso perfino l’attenzione dell’ubriaco si concentrò sul mezzelfo. Sforzandosi di metterlo a fuoco, l’ubriaco fissò Tanis con una specie di rabbia perplessa, come per biasimarlo di essere la causa di tutti i suoi guai. Poi, d’un tratto l’ubriaco sgranò gli occhi, la sua faccia si spaccò in un sorriso sciocco, e prese ad avanzare brancolando con le braccia tese. «Tanisc... amico a...»

«In nome degli dei,» bisbigliò Tanis che finalmente l’aveva riconosciuto.

Il gigante venne avanti vacillando e inciampò in una sedia. Per un istante rimase in piedi, oscillando incerto, come un albero tagliato e ormai pronto a cadere. Arrovesciò gli occhi, la gente corse via per scansarsi. Poi, con un tonfo che fece tremare l’intera locanda, Caramon Majere, Eroe delle Lance, perse i sensi ai piedi di Tanis.

Capitolo terzo.

«In nome degli dei,» ripetè Tanis addolorato chinandosi sopra il guerriero in stato comatoso.

«Caramon...»

«Tanis...». La voce di Riverwind indusse il mezzelfo a sollevare rapidamente lo sguardo. L’uomo delle pianure stringeva Tika fra le braccia. Sia lui che Dezra stavano cercando di confortare la giovane donna sconvolta. Ma la gente si stava accalcando tutt’intorno cercando di far domande a Riverwind o chiedendo a Crysania una benedizione. Altri esigevano a gran voce dell’altra birra oppure ciondolavano lì intorno a bocca spalancata. Tanis si alzò in piedi. «Per stanotte la locanda è chiusa!» urlò. Grida di scherno si levarono dalla folla, salvo per qualche applauso sparso in fondo alla sala dove parecchi avventori avevano creduto che intendesse offrire da bere a tutti.

«No. Dico sul serio,» ribadì Tanis con fermezza, sovrastando il baccano con la propria voce. «Vi ringrazio tutti per questo benvenuto. Voi non sapete cosa significhi per me tornare nella mia patria. Ma adesso i miei amici ed io vorremmo essere lasciati soli. Per favore, è già tardi...» Si levarono mormorii di solidarietà e alcuni applausi benevoli. Soltanto pochi si accigliarono e bofonchiarono commenti sul fatto che più grande era il cavaliere più la sua armatura lo abbagliava (un vecchio detto risalente ai giorni in cui i Cavalieri di Solamnia venivano derisi). Riverwind, lasciando che Dezra si occupasse di Tika, si fece avanti per pungolare quei pochi sbandati i quali avevano supposto che Tanis intendesse tutti fuorché loro. Il mezzelfo vegliava su Caramon che russava beatamente disteso sul pavimento, impedendo che la gente calpestasse l’omone. Scambiò alcune occhiate con Riverwind quando l’uomo delle pianure gli passò accanto, ma nessuno dei due ebbe tempo di parlare fino a quando la locanda non fu vuota.

Otik Sandeth era in piedi accanto alla porta intento a ringraziare tutti per essere venuti e assicurandoli che la locanda sarebbe stata nuovamente aperta l’indomani sera. Quando tutti se ne furono andati, Tanis si avvicinò al proprietario in pensione, sentendosi impacciato e imbarazzato.

Ma Otik lo fermò prima che potesse parlare.

Stringendo la mano nella sua, l’anziano bisbigliò: «Sono lieto che tu sia tornato. Chiudi a chiave quando avrai finito.» Lanciò un’occhiata a Tika, poi con un’espressione da cospiratore fece cenno al mezzelfo di venire avanti. «Tanis,» proseguì in un sussurro, «se ti dovesse capitare di vedere Tika che sottrae qualcosa dalla cassetta dei soldi, non badarci. Un giorno li ripagherà. Io fingo di non accorgermene.» Il suo sguardo andò a Caramon, e scosse tristemente la testa. «So che sarai in grado di dare aiuto,» mormorò, poi annuì e si allontanò nella notte con andatura rigida e passo pesante, appoggiandosi al suo bastone.

Aiuto! pensò Tanis, furibondo. Lui era venuto a cercare il suo aiuto. Caramon, russando in maniera particolarmente rumorosa, emerse in parte dai fumi dell’alcool, ruttò pestilenziali zaffate dello spirito dei nani, poi si riadagiò per dormire. Tanis rivolse un’occhiata desolata a Riverwind, poi scosse la testa disperato.

Crysania fissava Caramon con pietà mista a disgusto. «Pover’uomo,» disse con voce sommessa. Il medaglione di Paladine risplendeva alla luce delle candele. «Forse io...»