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Dalamar lanciò un’occhiata alla finestra. La luna rossa, Lunitari, cominciava a scomparire alla vista dietro agli orli neri e frastagliati delle montagne. La notte si stava avvicinando alla sua metà.

«Devi fare il tuo viaggio ed essere di ritorno prima che io parta domattina,» continuò Raistlin.

«Senza dubbio ci saranno alcune istruzioni dell’ultimo momento. Oltre a molte cose che devo lasciare affidate alle tue cure. Naturalmente, qui l’incaricato sarai tu durante la mia assenza.»

Dalamar annuì, poi corrugò la fronte. «Hai parlato del mio viaggio, Shalafi! Io non devo andare da nessuna parte...». L’elfo scuro ristette, soffocando nel ricordare che in verità doveva andare da qualche parte, che doveva fare un rapporto.

Raistlin guardò il giovane elfo in silenzio, un’espressione d’inorridita constatazione affiorò sul volto di Dalamar, riflessa negli occhi simili a specchi del mago. Poi, con lentezza, Raistlin avanzò verso il giovane apprendista, con le vesti nere che gli frusciavano gentilmente intorno alle caviglie. In preda al terrore Dalamar non riuscì a muoversi, gli incantesimi protettivi gli sfuggirono di mano. La sua mente non riuscì a pensare a niente, soltanto a due dorati occhi piatti, privi di emozioni.

Lentamente Raistlin sollevò la mano e l’appoggiò delicatamente sul petto di Dalamar, toccando le vesti nere del giovane con la punta delle cinque dita.

Il dolore fu atroce, Dalamar si sbiancò in volto, i suoi occhi si spalancarono, e rantolò per la sofferenza. Ma l’elfo scuro non potè sottrarsi a quel terribile tocco. Incatenato dallo sguardo di Raistlin, Dalamar non riuscì neppure a urlare.

«Riferisci loro in modo accurato sia quello che ti ho detto,» bisbigliò Raistlin, «sia ciò che puoi aver indovinato. E porgi al grande Par-Salian i miei saluti... apprendista!»

Il mago ritirò la mano.

Dalamar crollò sul pavimento, gemendo e stringendosi il petto. Raistlin gli girò intorno senza rivolgergli neppure un’occhiata. L’elfo scuro lo sentì uscire dalla stanza, sentì il morbido frusciare delle vesti nere, la porta che si apriva e tornava a chiudersi.

In un parossismo di dolore, Dalamar si lacerò le vesti. Cinque scie di sangue rosse e luccicanti gli colavano lungo il petto, inzuppando il tessuto nero, sgorgando da cinque fori aperti là dove la sua pelle era stata bruciata.

Capitolo decimo.

«Caramon! Alzati! Svegliati!»

«No. Sono nella mia tomba. Fa caldo qui sotto il terreno, caldo e sicuro. Non puoi svegliarmi, non puoi raggiungermi. Sono nascosto nell’argilla. Non puoi trovarmi.»

«Caramon, questo devi vederlo! Svegliati!»

Una mano spinse da parte l’oscurità, tirandolo.

No, Tika, vai via! Una volta mi riportasti alla vita, al dolore, alla sofferenza. Avresti dovuto lasciarmi nel dolce regno della tenebra sotto il mare di Sangue di Istar. Ma adesso, finalmente, ho trovato la pace. Ho scavato la mia tomba e mi sono sepolto.

«Ehi, Caramon, farai meglio a svegliarti e a dare un’occhiata a questo!»

Quelle parole! Erano familiari. Naturalmente, le ho dette io. Le ho dette a Raistlin molto tempo fa, quando lui ed io siamo venuti per la prima volta in questa foresta. Allora, come posso sentirle? A meno che io non sia Raistlin... Ah... è...

C’era una mano sulla sua palpebra! Due dita la stavano aprendo! A quel tocco la paura corse pizzicante lungo il flusso sanguigno di Caramon, causandogli un sussulto al cuore.

«Arghhhh!» tuonò Caramon, allarmato, cercando di strisciare dentro il terreno quando quell’occhio aperto a forza vide una faccia gigantesca china sopra di lui: la faccia di una nana dei burroni!

«Lui sveglio,» riferì Bupu. «Qui,» disse a Tasslehoff. «Tu tieni quest’occhio, io apro altro.»

«No!» si affrettò a gridare Tas. Trascinando via Bupu dal guerriero, la spinse dietro di sé. «Uh... vai a prendere un po’ d’acqua.»

«Buona idea,» osservò Bupu, e corse via.

«Va... va tutto bene, Caramon,» disse Tas, inginocchiandosi accanto all’omone e battendogli una mano sulla spalla per rassicurarlo. «Era soltanto Bupu. Mi dispiace, ma stavo... uh... guardando... be’, vedrai... e mi sono dimenticato di sorvegliarla.»

Gemendo, Caramon si coprì il viso con la mano. Con l’aiuto di Tas, si dibatté fino ad alzarsi in piedi. «Ho sognato che ero morto,» disse con voce greve. «Poi ho visto quella faccia, e ho saputo che era tutto finito. Mi trovavo nell’Abisso.»

«Potresti ben desiderare di esserci,» replicò Tas, cupo.

Nell’udire quel tono di voce insolitamente serio, Caramon levò lo sguardo sul kender. «Perché? Cosa vuoi dire?» chiese con asprezza.

Invece di rispondere, Tas gli domandò: «Come ti senti?»

Caramon corrugò la fronte. «Sono sobrio, se è questo che vuoi sapere,» borbottò l’omone. «E per gli dei, vorrei non esserlo.»

Tasslehoff lo fissò pensieroso per un momento poi, lentamente, affondò la mano in una borsa e tirò fuori una piccola bottiglia chiusa in una guaina di cuoio. «Ecco qua, Caramon,» disse con calma,

«se pensi davvero di averne bisogno.»

Gli occhi dell’omone lampeggiarono. Tese con avidità la mano tremante e afferrò la bottiglia.

Stappatala, l’annusò, sorrise, e la sollevò alle labbra.

«Smettila di fissarmi!» ordinò a Tas, imbronciato.

«Mi spia... spiace.» Tas arrossì. Si alzò in piedi. «Va... vado ad occuparmi di Dama Crysania...»

«Crysania...» Caramon abbassò la fiasca, intatta. Si sfregò gli occhi gonfi. «Già. Mi sono dimenticato di lei. Buona idea di occuparti della Dama... Prendila e vattene da qui. Tu e quella tua appestata nana dei burroni! Vattene e lasciami solo!». Sollevando di nuovo la bottiglia alle labbra, Caramon tracannò una lunga sorsata. Ebbe un accesso di tosse, abbassò la bottiglia, e si asciugò la bocca col dorso della mano. «Vai,» ripetè, fissando Tas con occhio smorto, «vattene da qui! Andate via tutti! . Lasciatemi solo!»

«Mi spiace, Caramon,» disse Tas con calma. «Vorrei davvero che potessimo. Ma non possiamo.»

«Perché?» ringhiò Caramon.

Tas tirò un profondo sospiro. «Perché, se ricordo le storie che Raistlin mi ha raccontato, credo che la Foresta di Wayreth ci abbia trovato.»

Per un attimo, Caramon fissò Tas con gli occhi iniettati di sangue.

«È impossibile,» disse dopo un momento, le sue parole erano poco più di un bisbiglio. «Siamo a molte miglia da lì! Io... io e Raist... abbiamo impiegato mesi per trovare la Foresta! E la Torre è molto più a sud rispetto a questo luogo! Si trova bene al di là di Qualinesti, stando alla tua mappa.»

Caramon guardò Tas con espressione minacciosa. «Non sarà la stessa mappa che mostrava Tharsis in riva al mare, vero?»

«Potrebbe essere,» disse Tas, evasivo, affrettandosi ad arrotolare la mappa e nascondendola dietro la schiena. «Ne ho così tante...». Cambiò argomento in fretta e furia. «Ma Raistlin ha detto che era una foresta magica, perciò immagino che possa essere stata lei a trovarci, se ne aveva , la predisposizione.»

«È una foresta magica,» mormorò Caramon, con voce profonda e tremante. «È un luogo di orrori.»

Chiuse gli occhi e scosse la testa, poi, all’improvviso, sollevò lo sguardo, la sua faccia era un concentrato di astuzia. «È un trucco, non è vero? Un trucco per impedirmi di bere! Be’, non funzionerà...»

«Non è un trucco, Caramon.» Tas sospirò. Poi puntò un dito. «Guarda laggiù. È proprio come me l’ha descritta Raistlin, un giorno.»

Caramon voltò la testa e la vide, e rabbrividì, sia per la foresta in sé, J sia per gli amari ricordi di suo fratello che lo spettacolo fece riemergere in lui.

La radura nella quale erano accampati era un piccolo spiazzo erboso a una certa distanza dal sentiero principale. Era circondato da aceri, pini, castagni e perfino da qualche pioppo tremulo. Gli alberi stavano giusto cominciando a germogliare. Caramon li aveva guardati mentre scavava la tomba di Crysania. I rami scintillavano alla prima luce del mattino nel debole chiarore gialloverde della primavera. I fiori selvatici sbocciavano alle loro radici, i primi fiori della primavera, crochi e violette.