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«Non siamo poi tanto diversi,» la voce di Raistlin parve uscire dalle fiamme. «Io vivo nella mia Torre, dedicandomi ai miei studi. Tu vivi nella tua Torre, dedicandoti alla tua fede. E il mondo ci gira intorno.»

«È questo è il vero male,» disse Crysania rivolta alle fiamme. «Stare seduti e non far nulla.»

«Adesso capisci,» proseguì Raistlin, «io non mi accontento più di star seduto a guardare. Ho studiato per lunghi anni per una ragione, uno scopo. E adesso, questo è alla mia portata. Io farò la differenza, Crysania. Io cambierò il mondo. È questo il mio piano.»

Crysania sollevò rapidamente lo sguardo. La sua fede era stata scossa, ma il suo nocciolo era ancora forte. «Il tuo piano! È il piano contro cui Paladine mi ha messo in guardia nel mio sogno. Questo piano per cambiare il mondo causerà la distruzione del mondo stesso!» Serrò la mano in grembo. «Non devi attuarlo. Paladine...»

Raistlin fece un gesto impaziente con la mano, i suoi occhi dorati lampeggiarono e, per un momento, Crysania si ritrasse, intravedendo i fuochi che covavano all’interno di quell’uomo.

«Paladine non mi fermerà,» disse Raistlin, «poiché io cerco di deporre il suo più grande nemico.»

Crysania fissò il mago, senza capire. Quale nemico poteva mai essere? Quale nemico poteva avere Paladine in questo mondo? Poi il significato di ciò che aveva detto Raistlin le divenne chiaro. Crysania sentì il sangue defluirle dal volto, una gelida paura la fece rabbrividire convulsamente. Incapace di parlare, scosse la testa. L’enormità delle sue ambizioni e dei suoi desideri era troppo spaventosa, troppo impossibile anche soltanto a contemplarsi.

«Ascolta,» le disse Raistlin con voce sommessa. «Te lo chiarirò...»

E le riferì i suoi piani. Crysania rimase seduta per quelle che le parvero ore davanti al fuoco, trattenuta dallo sguardo di quegli strani occhi dorati, ipnotizzata dal suono della sua voce morbosamente sussurrante che le raccontava le meraviglie della sua magia e dell’altra magia che, adesso, era andata da tempo perduta, le meraviglie scoperte da Fistandantilus.

Raistlin tacque. Crysania rimase seduta per lunghi momenti, smarrita, vagando in un regno molto distante da qualunque altro regno da lei conosciuto. Il fuoco ardeva basso nelle grigie ore prima dell’alba. La stanza divenne più chiara. Crysania rabbrividì in quell’ambiente divenuto improvvisamente gelido.

Raistlin tossì, e Crysania sollevò lo sguardo su di lui, sorpresa. Era pallido per la fatica, i suoi occhi ardevano di febbre, le mani gli tremavano. Crysania si alzò in piedi.

«Mi spiace,» disse con voce sommessa. «Ti ho tenuto sveglio per tutta la notte, e non stai bene. Io devo andare.»

Raistlin si alzò insieme a lei. «Non preoccuparti per la mia salute, Reverenda Figlia,» rispose con un sorriso contorto. «Il fuoco che arde dentro di me produce energia sufficiente a riscaldare questo mio corpo infranto. Dalamar ti riaccompagnerà attraverso il Bosco di Shoikan, se lo vorrai.»

«Sì, grazie,» mormorò Crysania. Aveva dimenticato che avrebbe dovuto riattraversare quel luogo malefico. Tirando un profondo sospiro, porse la mano a Raistlin. «Grazie per avermi incontrato,» cominciò a dire, in tono formale. «Spero...»

Raistlin le prese la mano nella sua, il tocco della sua pelle liscia bruciava. Crysania lo fissò negli occhi. Vide se stessa riflessa là dentro, una donna incolore vestita di bianco.

«Non puoi far questo,» bisbigliò Crysania. «È sbagliato. Bisogna fermarti.» Gli strinse la mano con molta forza.

«Dimostrami che è sbagliato,» disse Raistlin, attirandola accanto a sé: «Dimostrami che questo è male. Convincimi che le vie del bene sono il modo per salvare il mondo.»

«Ascolterai?» chiese Crysania, ansiosa. «Sei circondato dalla tenebra. Come potrò arrivare da te?»

«L’oscurità si è dischiusa, non è vero?» chiese Raistlin. «L’oscurità si è dischiusa e tu sei entrata.»

«Sì...» Crysania fu d’un tratto conscia del tocco della sua mano, del calore del suo corpo. Arrossendo a disagio, fece un passo indietro. Togliendo la mano dalla sua stretta, la sfregò meccanicamente, come se le facesse male.

«Arrivederci, Raistlin Majere» disse, senza guardarlo negli occhi. «Arrivederci, Reverenda Figlia di Paladine,» lui rispose. La porta si aprì e Dalamar comparve sulla soglia, anche se lei non aveva visto Raistlin chiamare in qualche modo il giovane apprendista. Calandosi il bianco cappuccio sui capelli, Crysania voltò le spalle a Raistlin e varcò la soglia. Incamminandosi lungo il corridoio di pietra grigia, poteva sentire lo sguardo dei suoi occhi dorati che le penetrava le vesti, arroventandole. Quando arrivò alla stretta scala a chiocciola che conduceva in basso, la sua voce la raggiunse:

«Forse Paladine non ti ha mandato per fermarmi, Dama Crysania. Forse ti ha mandato per aiutarmi.»

Crysania si fermò e guardò dietro di sé: ma Raistlin era scomparso, il grigio corridoio appariva desolato e vuoto. Dalamar era in attesa accanto a lei.

Lentamente, raccogliendo le pieghe delle sue vesti bianche nella mano, in modo da non inciampare, Crysania scese la scala.

E continuò a scendere... giù... giù... interminabilmente.

Capitolo dodicesimo.

La Torre della Grande Stregoneria a Wayreth era stata per secoli l’ultimo avamposto della magia sul continente di Ansalon. Qui i maghi erano stati costretti a ritirarsi quando il Gran Sacerdote aveva ordinato loro di abbandonare le altre torri. Qui erano giunti lasciando la Torre di Istar, adesso sotto le acque del Mare di Sangue; abbandonando la Torre maledetta e annerita di Palanthas. La Torre, a Wayreth, era una struttura imponente, uno spettacolo che incuteva paura. Le pareti esterne formavano un triangolo equilatero. Una torre più piccola si ergeva su ogni angolo di quella forma perfettamente geometrica. Al centro si innalzavano due torri principali, leggermente inclinate, contorte soltanto un po’, quel che bastava per far sbattere le palpebre a chi le contemplava e fargli dire dentro di sé: Ma non sono storte?

Le mura erano costruite in pietra nera. Levigata fino ad essere lucidissima, questa pietra risplendeva sfolgorante alla luce del sole, e di notte rifletteva la luce delle due lune e specchiava l’oscurità della terza. Delle rune erano scolpite sulla superficie della pietra, rune di potere e di forza che facevano da scudo e protezione; rune che legavano le pietre le une alle altre. La sommità delle mura era liscia. Non c’erano spalti da difendere. Non ce n’era bisogno.

Lontana da ogni centro di civiltà, la Torre di Wayreth era circondata dal suo magico mondo. Nessuno che non vi appartenesse poteva entrarvi, nessuno vi veniva senza essere invitato. Così i maghi proteggevano il loro ultimo bastione di forza, difendendolo efficacemente dal mondo esterno.

Ma la Torre non era inanimata. Ambiziosi apprendisti fruitori di magia giungevano da ogni parte del mondo per affrontare la rigorosa, e a volte fatale, Prova. Stregoni di grande fama arrivavano quotidianamente per continuare i loro studi, incontrarsi, discutere, condurre esperimenti pericolosi e delicati. Per costoro, la Torre era aperta giorno e notte. Potevano andare e venire a loro piacimento: Vesti Nere, Vesti Rosse, Vesti Bianche.

Malgrado le loro filosofie fossero distanti, nel loro modo di vedere e vivere con il mondo, tutte le Vesti s’incontravano in pace nella Torre. I dibattiti erano tollerati soltanto se servivano a far progredire l’Arte. I combattimenti di qualsiasi genere erano proibiti: la punizione era la morte, rapida e terribile.

L’Arte. Era l’unica cosa che li univa tutti. Era la loro prima lealtà, non aveva importanza chi fossero, chi servivano, di che colore fossero le Vesti che indossavano. I giovani fruitori di magia che affrontavano la morte calmi e tranquilli quando acconsentivano ad affrontare la Prova, lo capivano. Gli antichi stregoni che venivano qui per esalare il loro ultimo respiro ed essere sepolti entro quelle mura familiari, lo capivano. L’Arte. La Magia. Era il genitore, l’amante, la sposa, il figlio. Era il suolo, il fuoco, l’aria, l’acqua. Era la vita. Era la morte. Andava oltre la morte.