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Denubis rabbrividì. Avrebbe desiderato che il Gran Sacerdote non usasse quella particolare metafora. Denubis detestava i ragni. Odiava tutti gli insetti, in realtà; era una cosa che non avrebbe mai ammesso e che, in verità, lo faceva sentire colpevole. Non gli veniva forse comandato di amare tutte le creature, salvo, naturalmente, quelle create dalla Regina delle Tenebre? Ciò comprendeva gli orchi, i goblin, i troll, e le altre razze malefiche, ma Denubis non era sicuro dei ragni. Aveva sempre avuto l’intenzione di chiederlo, ma sapeva che ciò avrebbe comportato una lunga ora di discussioni filosofiche tra i Reverendi Figli, e, semplicemente, pensava che non ne valesse la pena.

Avrebbe continuato ad odiare i ragni, in segreto. Denubis si schiaffeggiò delicatamente la testa che stava diventando calva. Come aveva fatto la sua mente a divagare sui ragni? Sto diventando vecchio, pensò con un sospiro. Ben presto sarò come il povero Arabacus, starò tutto il giorno senza far niente, passerò il tempo a dormire in giardino fino a quando qualcuno non mi sveglierà per la cena. A questo pensiero Denubis sospirò di nuovo, ma era più un sospiro d’invidia che di pietà.

Povero Arabacus davvero! Per lo meno gli viene risparmiato... «Denubis...»

Denubis si fermò. Guardò a destra e a sinistra lungo l’ampio corridoio, ma non vide nessuno. Il chierico rabbrividì. Aveva sentito quella voce Suadente, oppure l’aveva soltanto immaginata?

«Denubis,» risuonò di nuovo la voce.

Questa volta il chierico scrutò con maggiore attenzione tra le ombre formate dalle gigantesche colonne di marmo che sorreggevano il soffitto dorato. Adesso, un’ombra più scura, una chiazza d’oscurità più intensa dentro la tenebra, era distinguibile. Denubis frenò un’esclamazione irritata.

Sforzandosi di dominare un nuovo tremito che spazzò il suo corpo, arrestò i propri passi, poi riprese ad avanzare lentamente verso la figura che si trovava in mezzo alle ombre, sapendo che non sarebbe mai uscita da quell’oscurità diffusa per venirgli incontro. Non che la luce fosse nociva a colui che stava aspettando Denubis, come era indubbiamente nociva ad alcune delle creature delle tenebre.

No, era semplicemente che lui preferiva le ombre. Tutto teatro, pensò Denubis, sarcastico.

«Mi hai chiamato, Oscuro?» chiese Denubis, con una voce che si sforzò in ogni modo di rendere piacevole.

Vide un sorriso sul volto nell’ombra, e Denubis seppe subito che tutti i suoi pensieri erano ben conosciuti da quell’uomo.

«Dannazione!» imprecò Denubis (un’abitudine, questa, deplorata dal Gran Sacerdote, ma un’abitudine che Denubis, un uomo semplice, non era mai stato capace di vincere). «Perché mai il Gran Sacerdote lo tiene a corte? Perché non spedirlo via, come sono stati banditi gli altri?»

Lo disse a se stesso, naturalmente, perché, nel suo più profondo intimo, Denubis conosceva la risposta. Questo era troppo pericoloso, troppo potente. Questo non era come gli altri. Il Gran Sacerdote lo teneva come si tiene un cane feroce per proteggere la propria casa, sapendo che il cane attaccherà quando gli verrà ordinato, ma controllando in continuazione la robustezza del guinzaglio del cane. Se il guinzaglio si fosse rotto, il cane sarebbe balzato alla gola del suo stesso padrone.

«Mi spiace di averti disturbato, Denubis,» disse l’uomo con la sua voce vellutata, «specialmente quando ti vedo assorto in pensieri così impegnativi. Ma un evento di grande importanza sta avvenendo, proprio mentre parliamo. Prendi uno squadrone di guardie del Tempio e vai sulla piazza del mercato. Là, all’incrocio, troverai una Reverenda Figlia di Paladine. È quasi prossima alla morte. E lì troverai anche l’uomo che l’ha aggredita.»

Denubis spalancò gli occhi, poi li strinse, colto da un improvviso sospetto.

«Come fai a saperlo?» s’informò.

La figura immersa nell’ombra si mosse, le linee scure formate dalle labbra sottili si allargarono: la sua miglior approssimazione d’una risata.

«Denubis,» lo rimbrottò la figura, «mi conosci da molti anni. Chiedi forse al vento come soffia? Interroghi forse le stelle per scoprire come risplendono? Io lo so, Denubis. Che ciò ti sia sufficiente.»

«Ma...» Denubis si portò le mani alla testa in preda alla confusione. Ciò avrebbe comportato spiegazioni, rapporti fatti alle autorità competenti. Non si poteva far spuntare dal nulla uno squadrone di guardie del Tempio! «Spicciati, Denubis,» lo sollecitò l’uomo, con cortesia. «Non vivrà a lungo...»

Denubis deglutì. Un’aggressione a una Reverenda Figlia di Paladine! Una Reverenda Figlia morente sulla piazza del mercato! Probabilmente circondata da una folla che la stava guardando a bocca spalancata. Lo scandalo! Il Gran Sacerdote sarebbe stato molto scontento...

Il chierico aprì la bocca, poi tornò a chiuderla di scatto. Fissò per un momento la figura in mezzo alle ombre poi, non ricavandone nessun aiuto, Denubis si girò di colpo e, in mezzo a uno svolazzare di vesti, rifece di corsa il corridoio nella direzione dalla quale era venuto, con i sandali che sbattevano sul pavimento di marmo.

Raggiunto il quartier generale centrale del Capitano della Guardia, Denubis riuscì a esporre la sua richiesta con voce affannosa al comandante di turno. Come aveva previsto, questo causò ogni sorta di agitazione. Aspettando che il comandante generale in persona arrivasse, Denubis si accascio su una sedia e cercò di riprender fiato.

L’identità del creatore dei ragni poteva anche essere messa in discussione, pensò Denubis con amarezza, ma non c’era assolutamente nessun dubbio nella sua mente sul creatore di quella creatura delle tenebre che, certamente, se ne stava là in mezzo alle ombre e lo derideva.

«Tasslehoff!»

Il kender aprì gli occhi. Per qualche istante non ebbe nessuna idea di dove si trovava o perfino chi fosse. Aveva sentito una voce pronunciare un nome che gli suonava vagamente familiare. Confuso, il kender si guardò intorno. Giaceva sopra un omone, il quale era disteso supino nel mezzo di una strada. L’omone lo stava guardando in preda a un vivo stupore, forse perché Tas era appollaiato sul suo ampio stomaco. ; «Tas?» ripetè l’omone, e questa volta il suo volto mostrò perplessità. «Dovresti essere qui?»

«N... non ne sono affatto sicuro,» rispose il kender, chiedendosi chi (fosse Tas. Poi tutto gli ritornò alla memoria: Par-Salian che salmodiava, egli che si strappava l’anello dal pollice, la luce accecante, le pietre che cantavano, lo stridulo urlo di orrore del mago...

«Certo che dovrei essere qui,» sbottò Tas, irritato, escludendo dalla propria mente il ricordo del grido di paura di Par-Salian. «Non credevi mica che ti avrei lasciato tornare indietro nel tempo da solo, vero?» Il kender era praticamente naso a naso con l’omone. L’espressione perplessa di Caramon si rabbuiò. Le sopracciglia si corrugarono. «Non ne sono sicuro,» borbottò, «ma non credo che tu...»

«Insomma, io sono qui.» Tas rotolò giù dal corpo tondeggiante di ;Caramon per atterrare sull’acciottolato sotto di loro. «Dovunque si trovi “qui”,» borbottò fra i denti. «Lascia che ti aiuti ad alzarti,» disse ancora »,a Caramon, porgendogli la piccola mano, sperando con quel gesto di distogliere l’attenzione di Caramon dalla sua persona. Tas non sapeva se potesse o no venir rispedito indietro, ma non aveva nessuna intenzione di scoprirlo.