«Muoviti, non tentare nessuno dei tuoi trucchi.» Tas avanzò, troppo infelice e sconvolto anche soltanto per guardarsi intorno. Il suo sguardo andò a Caramon, e il kender sentì male al cuore.
Sopraffatto dalla vergogna e dalla paura, Caramon strascicava i piedi, incerto, dondolando la testa.
«Non sono stato io a farle del male!» lo sentì farfugliare Tas, mentre in qualche modo procedeva.
«Dev’esserci un errore...»
Capitolo secondo.
Le bellissime voci degli elfi si levarono sempre più alte, le dolci note spiraleggiavano su per le ottave come se potessero portare le loro preghiere al cielo semplicemente risalendo la scala musicale. I volti delle donne elfo, toccati dai raggi del sole calante che entravano obliqui attraverso le alte finestre di cristallo, erano tinti di un delicato color rosa, e nei loro occhi brillava una fervida ispirazione.
I pellegrini presenti ascoltavano piangendo davanti a tanta bellezza, facendo sì che il coro delle Vesti Bianche e Azzurre (le Vesti Bianche delle Reverende Figlie di Paladine, le Vesti Azzurre delle Figlie di Mishakal) a causa delle lacrime divenisse indistinto alla loro vista. Più tardi molti avrebbero giurato di aver visto le donne elfo trasportate verso il cielo avvolte in nuvole vaporose.
Quando la dolcezza del loro canto raggiunse nuovi vertici, un coro di voci maschili si unì ad esse, tenendo legate al suolo le preghiere che si erano levate in alto come liberi uccelli, tarpando loro le ali, in un certo senso: così pensava Denubis, amareggiato. E pensava anche di essere saturo di tanta dolcezza. Da giovanetto anche lui aveva purificato la sua anima con le lacrime quando aveva sentito per la prima volta l’Inno del Vespro. Poi, molti anni più tardi, questa era diventata una routine.
Ricordava assai bene lo choc che aveva provato quando, durante il canto, si era reso conto per la prima volta che i suoi pensieri erano andati a qualche urgente faccenda della chiesa... Adesso, era ancora peggio d’una routine. Era diventata una faccenda irritante, nauseante e fastidiosa. In effetti, Denubis era giunto a temere quell’ora del giorno, e approfittava di ogni occasione per fuggirla.
Perché? Dava la maggior parte della colpa alle donne elfo. Pregiudizio razziale, si disse imbronciato. Eppure, lui non poteva farci niente. Ogni anno un gruppo di donne elfo, Reverende Figlie e aspiranti tali, viaggiava fin lì dalla gloriosa terra di Silvanesti per trascorrere un anno ad Istar, recandosi alla chiesa. Ciò significava che, ogni sera, si riunivano a cantare l’Inno del Vespro, e passavano la giornata a ricordare a chiunque jngeva loro a tiro che gli elfi erano i favoriti degli dei, creati per primi di tutte le razze, e ai quali era accordato un arco di vita di centinaia d’anni. Eppure, pareva che Denubis fosse il solo a offendersi per questo.
Quella sera, in particolare, il canto riusciva irritante a Denubis perchè era preoccupato per la giovane donna che aveva portato al tempio quella mattina. In effetti, era quasi riuscito a evitare di venire, ma era stato catturato all’ultimo momento da Gerald, un anziano chierico umano i cui giorni su Krynn erano contati e che provava il più grande conforto nel presenziare alle Preghiere Vespertine. Probabilmente, rifletté Denubis, perché il vecchio era quasi del tutto sordo. E proprio perché le cose stavano effettivamente così, era stato del tutto impossibile spiegare a Gerald , che lui, Denubis, doveva andare in qualche altro posto. Alla fine Denubis , aveva rinunciato, offrendo al vecchio chierico il proprio braccio a mo’ di sostegno. Adesso Gerald era immobile accanto a lui, il volto rapito, senza alcun dubbio immerso nella propria mente, nel bellissimo piano al quale lui, un giorno, sarebbe asceso.
Denubis stava pensando a tutto questo e alla giovane donna, che non aveva più visto né sentito da quando l’aveva portata al Tempio quella mattina, quando sentì un leggero tocco sul braccio. Il chierico sussultò, e si guardò intorno con aria colpevole, chiedendosi se la sua disattenzione non fosse stata notata e denunciata. Sulle prime non riuscì a capire chi l’avesse toccato, in apparenza entrambi i suoi vicini erano immersi nelle loro preghiere. Poi sentì di nuovo il tocco e si rese conto che veniva da dietro. Guardandosi alle spalle, vide che una mano si era inserita senza dare nell’occhio attraverso la tenda che separava la balconata sulla quale si trovavano i Reverendi Figli dalle anticamere intorno ad essa.
La mano gli fece segno di seguirlo e Denubis, perplesso, lasciò il suo posto nella fila e armeggiò impacciato con la tenda, cercando di andarsene senza richiamare su di sé attenzioni indebite. La mano si era ritirata e Denubis non riusciva più a trovare il punto in cui le pieghe dei pesanti tendaggi di velluto si aprivano. Alla fine, quando ormai era più che convinto che ogni pellegrino presente doveva avergli puntato addosso gli occhi pieni di disgusto, trovò l’apertura e l’attraversò incespicando.
Un giovane accolito, il volto liscio e placido, rivolse un inchino al chierico rosso in faccia e sudato.
«Le mie scuse per aver interrotto le tue preghiere della sera, Reverendo Figlio, ma il Gran Sacerdote chiede che tu lo onori di qualche momento del tuo tempo, se la cosa è conveniente.»
L’accolito aveva pronunciato le parole prescritte con tale distaccata cortesia che non sarebbe apparso insolito a qualunque osservatore se Denubis avesse risposto: «No, non adesso. Ci sono altre faccende a cui devo badare. Forse più tardi.»
Ma Denubis non replicò niente del genere. Impallidendo visibilmente, borbottò qualcosa sul fatto che era «molto onorato», con la voce che gli si smorzò in un soffio verso la fine. Comunque, l’accolito era abituato a questo e, annuendo, si voltò e gli fece strada attraverso i vasti e ariosi corridoi del Tempio, fino agli alloggi del Gran Sacerdote di Istar.
Affrettandosi a seguire il giovane, Denubis non ebbe il tempo di chiedersi di cosa mai potesse trattarsi. La giovane donna, naturalmente. Da due anni abbondanti Denubis non si era più trovato in presenza del Gran Sacerdote, e non poteva essere soltanto una coincidenza che questa convocazione arrivasse proprio lo stesso giorno in cui aveva trovato una Reverenda Figlia distesa in un vicolo, in punto di morte.
Forse era morta, pensò Denubis con tristezza. Il Gran Sacerdote me lo dirà personalmente. Sarebbe certo stato gentile da parte sua. Non in carattere, forse, per qualcuno che doveva occuparsi di questioni gravi come il destino d’intere nazioni, ma senz’altro gentile.
Sperò che non fosse morta. Non soltanto per lei, ma per l’umano e il kender. Denubis aveva pensato molto anche a loro. In particolare al kender. Come molti altri a Krynn, Denubis non sapeva che farsene dei kender, i quali non avevano proprio nessun rispetto per le leggi o la proprietà personale, la loro o quella degli altri. Ma questo kender pareva diverso. La maggior parte dei kender che Denubis conosceva (o che credeva di conoscere) sarebbe scappata al primo segno di guai. Questo invece era rimasto accanto al suo grosso amico con una fedeltà commovente, e aveva perfino parlato in sua difesa.
Denubis scosse la testa con tristezza. Se la ragazza fosse morta, avrebbero affrontato... No, non poteva pensarci. Mormorando una sincera preghiera a Paladine perché proteggesse tutti coloro che erano coinvolti (se ne erano degni), Denubis strappò la sua mente da quei pensieri deprimenti e la costrinse ad ammirare gli splendori della residenza privata del Grande Sacerdote nel tempio. Aveva dimenticato quella bellezza, le pareti bianche come il latte, che ardevano di una luce propria la quale proveniva, così diceva la leggenda, dalle pietre medesime. Erano plasmate e scolpite in maniera così delicata da farle luccicare come grandi petali di rose bianche che spuntavano dal bianco pavimento levigato. Erano percorse da lievi venature di luce azzurra, che ammorbidivano l’asprezza del bianco puro.