Là sedeva una figura abbigliata di nero, la sua oscurità superata soltanto dallo splendore del Gran Sacerdote. Ma Denubis, rabbrividendo, ebbe la precisa impressione che l’oscurità stesse aspettando soltanto il momento opportuno, sapendo che, alla fine, il sole sarebbe tramontato.
La consapevolezza che all’Oscuro, come Fistandantilus era conosciuto a corte, era consentito di esser presente all’interno della Sala delle Udienze del Gran Sacerdote, piombò come uno choc su Denubis. Forse, quando il mondo fosse stato totalmente libero dal Male, quando l’ultima delle razze degli orchi fosse stata eliminata, soltanto allora lo stesso Fistandantilus sarebbe caduto.
Ma proprio mentre questo pensiero lo faceva sorridere, Denubis vide il gelido luccichio degli occhi del mago appuntarsi su lui. Denubis rabbrividì e si affrettò a guardare altrove. Che contrasto c’era fra quell’uomo e il Gran Sacerdote! Quando si crogiolava nella luce del Gran Sacerdote, Denubis si sentiva avvolgere dalla tranquillità e dalla pace. Tutte le volte che gli capitava di appuntare il suo sguardo dentro gli occhi di Fistandantilus, invece, si trovava costretto a ricordare il buio che era in lui.
E, sotto il luccichio di quegli occhi, si trovò d’un tratto a chiedersi cosa avesse voluto dire il Gran Sacerdote con quella strana affermazione: «Chi di noi è davvero innocente?»
In preda a un profondo disagio, Denubis entrò in un’anticamera dove si trovava un enorme tavolo per banchetti.
L’odore di quei deliziosi e rari cibi, portati fin lì da ogni parte di Ansalon da pellegrini adoranti, o acquistati nei grandi mercati all’aria aperta di città lontane tanto quanto Xak Tsaroth, fece ricordare a Denubis che non aveva più mangiato niente dal primo mattino. Preso un piatto, passò in rassegna quelle prelibate pietanze, scegliendo questo e quello fino a quando non l’ebbe completamente riempito, e giunto appena a metà tavolo già letteralmente si piegava sotto quell’aromatico fardello.
Un servo portò grandi tazze rotonde di fragrante vino elfo. Presa una di queste, e destreggiandosi per reggere con l’altra mano, come un equilibrista, il piatto e le posate, Denubis si lasciò cadere su una sedia e cominciò a mangiare di buona lena. Si stava giusto godendo la celestiale combinazione di un boccone di fagiano arrosto con un sorso di vino elfo, il cui sapore gli si attardava in bocca, quando un’ombra si proiettò sul suo piatto.
Denubis sollevò lo sguardo, soffocò, e in qualche modo riuscì a trangugiare il resto del boccone mentre si puliva imbarazzato il vino che gli colava lungo il mento.
«Reverendo Figlio,» balbettò, facendo un debole tentativo di alzarsi nel segno di rispetto che il Capo dei Confratelli meritava.
Quarath lo squadrò con divertito sarcasmo e agitò languidamente una mano. «Prego, Reverendo Figlio, non permettere che io ti disturbi. Non ho nessuna intenzione d’interrompere la tua cena. Volevo soltanto scambiare una parola con te. Forse, quando avrai finito...»
«Ho... ho finito,» si affrettò a rispondere Denubis, porgendo il suo piatto mezzo pieno e il bicchiere a un servo che passava di là. «Sembra che io non abbia tutta quella fame che credevo.» Questo per lo meno era vero. Aveva perso completamente l’appetito.
Quarath ebbe un soave sorriso. Il suo sottile volto da elfo, con i lineamenti delicatamente scolpiti, pareva fatto di fragile porcellana; sorrideva sempre con cautela, come se temesse che la sua faccia potesse rompersi.
«Molto bene... i dessert non ti tentano?»
«N... no, neanche un po’. I dolci... fa... fanno male alla di... digestione, così tardi alla se... sera.»
«Allora vieni con me, Reverendo Figlio. È passato molto tempo da quando abbiamo parlato l’ultima volta.» Quarath prese Denubis per il braccio con distratta familiarità, anche se erano passati mesi dall’ultima volta che il chierico aveva visto il suo superiore.
Prima il Gran Sacerdote, poi Quarath. Denubis sentì un grumo freddo alla bocca dello stomaco.
Mentre Quarath lo conduceva lontano dalla Sala delle Udienze, la voce musicale del Gran Sacerdote si alzò. Denubis lanciò un’occhiata dietro di sé, crogiolandosi per un istante in quella luce meravigliosa. Poi, mentre con un sospiro distoglieva lo sguardo, i suoi occhi andarono a posarsi sul mago vestito di nero. Fistandantilus sorrise e annuì. Rabbrividendo, Denubis si affrettò a seguire Quarath fuori della porta.
I due chierici percorsero corridoi sontuosamente decorati fino a quando non arrivarono in una piccola camera, quella di Quarath. Anche questa era splendidamente decorata all’interno, ma Denubis era troppo nervoso per notare un qualsiasi dettaglio.
«Per favore, siediti, Denubis. Posso chiamarti così, dal momento che siamo soli e a nostro agio?»
Denubis non sapeva se era a proprio agio, ma certamente erano soli. Si accomodò sull’orlo del sedile che Quarath gli offrì, accettò un bicchierino di cordiale, che però non bevve, e aspettò.
Quarath parlò per qualche istante di cose irrilevanti, informandosi sul lavoro di Denubis (il chierico traduceva passi dei Dischi di Mishakal nella sua lingua nativa, il solamnico) e su altre faccende di cui, appariva ovvio, non gl’importava minimamente.
Poi, dopo una pausa, Quarath disse casualmente: «Non ho potuto fare a meno di sentire che hai interrogato il Gran Sacerdote.»
Denubis appoggiò sul tavolo il bicchierino col cordiale, la mano gli tremava talmente che a malapena riuscì ad evitare di versarlo. «Io... io ero semplicemente preoccupato per... per quel giovane... che hanno arrestato per sbaglio,» balbettò debolmente.
Quarath annuì con espressione grave. «Ed è anche molto giusto. Molto corretto. Sta scritto che dovremmo preoccuparci dei nostri simili su questo mondo. Ed è degno di te, Denubis, e ne prenderò certo nota nel mio rapporto annuale.»
«Grazie, Reverendo Figlio,» mormorò Denubis, per niente certo di cosa avrebbe dovuto rispondere.
Quarath non disse altro, ma rimase là immobile a fissare il chierico seduto davanti a lui con i suoi occhi obliqui da elfo.
Denubis si asciugò il viso con la manica della veste. Faceva incredibilmente caldo in quella stanza. Gli elfi avevano un sangue così sottile...
«C’era qualcos’altro?» gli chiese Quarath con voce pacata.
Denubis tirò un profondo sospiro. «Mio signore,» disse con slancio, «si tratta di quel giovanotto. Verrà rilasciato? E il kender?». D’un tratto gli venne un’ispirazione. «Ho pensato che forse avrei potuto essere di qualche aiuto, per ricondurli sui sentieri del Bene. Dal momento che il giovanotto è innocente...»
«Chi di noi è davvero innocente?» gli chiese Quarath, guardando il soffitto come se gli dei potessero averci scritto sopra la risposta.
«Sono certo che si tratta di un’ottima domanda,» disse Denubis con umiltà, «e senza alcun dubbio degna di studio e di discussione, ma questo giovanotto, a quanto pare, è innocente, per lo meno tanto innocente quant’è possibile esserlo di qualunque cosa...» Denubis si fermò, lievemente confuso.
Quarath sorrise con tristezza. «Ah, ecco, hai visto?» disse, allargando le braccia e volgendo lo sguardo sul chierico. «La pelliccia del coniglio copre il dente del leone, così è il detto.»
Abbandonandosi sullo schienale della sedia, Quarath fissò ancora una volta il soffitto. «I due verranno venduti domani al mercato degli schiavi.»
Denubis si alzò per metà dalla sua sedia. «Che cosa? Mio signore...»
Lo sguardo di Quarath si appuntò all’istante sul chierico, raggelandolo là dove si trovava.
«Domande? Di nuovo?»
«Ma... è innocente!» fu tutto ciò che Denubis riuscì in qualche modo a balbettare.
Quarath sorrise di nuovo, questa volta con stanchezza e indulgenza.
«Sei un brav’uomo, Denubis. Un brav’uomo e un buon chierico. Un uomo semplice, forse, ma un brav’uomo. Non abbiamo preso con leggerezza questa decisione. Abbiamo interrogato l’uomo. I suoi resoconti da dove è venuto e su ciò che stava facendo a Istar sono confusi, a dir poco. Se era innocente circa la ferita della ragazza, ci sono senza dubbio crimini che gli lacerano l’anima. Questo almeno è visibile sulla sua faccia. Non ha nessun mezzo di sostentamento, non aveva denaro addosso. È un vagabondo ed è probabile che si darebbe ai furti, se venisse lasciato in balìa di se stesso. Gli stiamo facendo un favore fornendogli un padrone che si occuperà di lui. Col tempo potrà guadagnarsi la sua libertà e, speriamolo, la sua anima sarà stata liberata dal fardello di colpe. In quanto al kender...» Quarath agitò con negligenza la mano.