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«Il Gran Sacerdote lo sa?» Denubis aveva fatto appello a tutto il suo coraggio per fare quella domanda.

Quarath sospirò, e questa volta Denubis vide una ruga d’irritazione comparire sulla fronte liscia dell’elfo. «Il Gran Sacerdote ha questioni molto più urgenti in mente, Reverendo Figlio Denubis,» replicò con freddezza.

«La sua bontà è tale che il dolore di quell’uomo che soffre lo turberebbe per molti giorni. Non ha detto in maniera specifica che l’uomo doveva essere liberato, perciò abbiamo semplicemente rimosso il fardello di questa decisione dai suoi pensieri.»

Vedendo il volto scarno di Denubis caricarsi di dubbi, Quarath si sporse in avanti, dalla sedia, fissando il suo chierico e aggrottando le sopracciglia. «Molto bene, Denubis, se vuoi proprio saperlo c’erano delle circostanze molto strane circa il ritrovamento di quel giovanotto. E quella di certo più significativa è che, a quanto ci è stato dato di capire, essa in realtà è avvenuta per opera diretta dell’Oscuro.»

Denubis deglutì e riaffondò sulla sua sedia. La stanza non gli pareva più calda. Rabbrividì. «Questo è vero,» disse con voce infelice, passandosi la mano sul viso. «Ha incontrato me...»

«Lo so,» esclamò Quarath. «Me l’ha detto. La giovane donna rimarrà qui con noi. E una Reverenda Figlia. Porta il medaglione di Paladine. Inoltre è un po’ confusa, ma questo c’era da aspettarselo. Possiamo tenerla d’occhio. Ma sono certo che ti renderai conto di come sia impossibile che permettiamo a quel giovanotto di andarsene. Ai vecchi tempi, l’avrebbero buttato in una segreta senza pensarci più. Noi siamo più illuminati, gli forniremo una casa decente e allo stesso tempo saremo in grado di sorvegliarlo.»

Quarath fa sembrare la vendita di un uomo come schiavo un atto caritatevole, pensò Denubis, confuso. Forse lo è. Forse sono io che mi sbaglio. Come Quarath ha detto, io sono un uomo semplice. Stordito, si alzò dalla sedia. Il ricco cibo che aveva mangiato gli gravava nello stomaco come un macigno. Borbottando una scusa al suo superiore, si diresse verso la porta. Anche Quarath si alzò, con un sorriso conciliante sulla faccia.

«Vieni a trovarmi di nuovo, Reverendo Figlio,» disse, quando sostarono accanto alla porta. «E non aver paura d’interrogarci. È così che impariamo.»

Denubis annuì stordito, poi ristette. «Ho... ho ancora una domanda, allora,» disse esitante. «Hai parlato dell’Oscuro. Cosa sai di lui? Voglio dire, perché si trova qui? Mi... mi fa paura.»

La faccia di Quarath era diventata grave, ma non parve dispiaciuto di quella domanda. Forse provava sollievo nel vedere che la mente di Denubis era passata a un altro argomento. «Chi sa nulla dei modi di agire dei fruitori di magia,» rispose, «se non che i loro modi non sono i nostri, né sono ancora i modi degli dei? È stato per questa ragione che il Gran Sacerdote si è sentito in obbligo di liberare Ansalon della loro presenza, nei limiti del possibile. Adesso sono rintanati nella sola Torre della Grande Stregoneria che ancora è loro rimasta, in quella remota Foresta di Wayreth. Ben presto anche quella scomparirà a mano a mano che il loro numero diminuirà, poiché abbiamo chiuso le scuole. Hai sentito della maledizione lanciata sulla Torre di Palanthas?»

Denubis annuì in silenzio.

«Quel terribile incidente!» Quarath proseguì. «Ti dimostra come gli dei abbiano maledetto questi stregoni... spingere quell’anima sventurata ad una tale follia da impalare se stesso là fuori, attirando la collera degli dei e sigillando la Torre per sempre... almeno lo supponiamo. Ma di cosa stavamo discutendo?»

«Fistandantilus,» mormorò Denubis, dispiaciuto di aver sollevato l’argomento. Adesso bramava soltanto tornare nella sua stanza e prendere la sua polverina per lo stomaco.

Quarath sollevò le sopracciglia piumate. «Tutto quello che so di lui è che si trovava già qui quando sono arrivato, circa cento anni fa. È vecchio, più vecchio perfino di molti miei simili, poiché sono pochi perfino tra i più vecchi della mia razza che riescano a ricordare un’epoca in cui il suo nome non veniva bisbigliato. Ma è umano, e perciò deve usare le sue arti magiche per sostenere la sua vita. Non oso immaginare come lo faccia.» Quarath gratificò Denubis d’una intensa occhiata.

«Naturalmente, capisci adesso perché il Gran Sacerdote lo tiene a corte?»

«Lo teme?» chiese Denubis, con innocenza.

Il sorriso di porcellana di Quarath divenne fisso per un momento, poi si trasformò nel sorriso di un genitore che stesse spiegando una semplice faccenda a un figlio ottuso. «No, Reverendo Figlio,» disse con pazienza. «Fistandantilus ci è molto utile. Chi conosce il mondo meglio di lui? Ha viaggiato in lungo e in largo. Conosce le lingue, i costumi, le tradizioni di ogni razza di Krynn. Le sue conoscenze sono vaste. È utile al Gran Sacerdote, e così gli permettiamo di rimanere qui, piuttosto che esiliarlo a Wayreth, come abbiamo esiliato i suoi compagni.»

Denubis annuì. «Capisco,» disse, con un pallido sorriso. «E... adesso devo proprio andare. Grazie per la tua ospitalità, Reverendo Figlio, e per aver chiarito i miei dubbi.»

«Sono lieto di essere stato in grado di aiutarti,» replicò Quarath, con gentilezza. «Possano gli dei concederti un tranquillo riposo, figlio mio.»

«E anche a te,» mormorò Denubis in risposta, poi si allontanò, sentendo, con sollievo, la porta che si chiudeva alle sue spalle.

Il chierico si affrettò a passare davanti alla sala delle udienze del Gran Sacerdote. La luce sgorgava dalla porta, il suono di quella dolce voce musicale gli strappò il cuore mentre passava, ma temette di sentirsi male e così resistette alla tentazione di tornare dentro.

Desiderando la pace della sua camera silenziosa, Denubis attraversò in fretta il Tempio. A un certo punto si smarrì, imboccando l’angolo sbagliato a un incrocio di corridoi. Ma un gentile servitore lo ricondusse nella direzione che doveva prendere per raggiungere la parte del Tempio in cui viveva.

Era una parte assai austera, se confrontata con quella in cui risiedevano il Gran Sacerdote e la sua corte, ma anch’essa era piena d’ogni lusso concepibile per gli standard di Krynn. E, mentre Denubis percorreva quei corridoi, pensò a quanto apparisse accogliente e confortevole quella tenue luce di candela. Altri chierici gli passarono accanto sorridendo e bisbigliandogli i saluti della sera. Era questo il suo ambiente. Semplice, com’era lui.

Con un altro sospiro di sollievo, Denubis raggiunse la sua piccola stanza e aprì la porta (niente era mai chiuso a chiave nel Tempio: avrebbe indicato sfiducia nei propri simili) e fece per entrare. Poi si fermò. Con la coda dell’occhio aveva intravisto un movimento, un’ombra scura in mezzo alle ombre più scure. Guardò con attenzione laggiù, in fondo al corridoio. No, non c’era niente. Era vuoto.

Sto diventando vecchio. Gli occhi mi fanno degli scherzi, si disse Denubis, scuotendo stancamente la testa.

Entrò nella stanza, con le vesti bianche che gli sussurravano intorno alle caviglie, chiuse con decisione la porta, poi cercò la polverina per lo stomaco.

Capitolo terzo.

La chiave sferragliò nella serratura della porta della cella.

Tasslehoff si rizzò a sedere di scatto. Una pallida luce filtrò nella cella attraverso una minuscola finestra sbarrata situata in alto nello spesso muro di pietra. L’alba, pensò sonnecchiando. La chiave sferragliò di nuovo, come se il carceriere avesse problemi ad aprire la porta. Tas lanciò un’occhiata inquieta a Caramon che si trovava al lato opposto della cella. L’omone giaceva su una lastra di pietra che era il suo letto, senza muoversi o dare alcun segno di aver sentito il fracasso.