«No, Reverendo Figlio. Se n’è andato stanotte, o per lo meno lo supponiamo. Stanotte è stata l’ultima volta che qualcuno l’ha visto. La sua stanza è vuota, le sue cose sono scomparse. Si ritiene, da certi indizi, che sia andato alla Torre della Grande Stregoneria di Wayreth. Corre voce che gli stregoni vi stiano tenendo un conclave, anche se nessuno lo sa per certo.»
«Un conclave,» ripetè Quarath, corrugando la fronte. Rimase silenzioso per un momento, battendo la punta della penna d’oca sulla carta. Wayreth era molto lontana... però, forse non era abbastanza lontana... Cataclisma... Quella strana parola che era stata usata nella lettera. Possibile che i fruitori di magia stessero complottando qualche devastante catastrofe? Quarath si sentì raggelare.
Accartocciò lentamente l’invito che stava stilando.
«I suoi movimenti sono stati ricostruiti?»
«Certamente, Reverendo Figlio, per quanto è possibile con lui. A quanto pare, era da molti mesi che non lasciava il Tempio. E poi ieri è stato visto al mercato degli schiavi.»
«Il mercato degli schiavi?». Quarath sentì un brivido gelido diffondersi per il suo corpo. «Quali faccende l’hanno condotto laggiù?»
«Ha comperato due schiavi, Reverendo Figlio.»
Quarath non disse niente, limitandosi a interrogare il chierico con un’occhiata.
«Non ha comperato lui stesso gli schiavi, mio signore. L’acquisto è stato fatto attraverso uno dei suoi agenti.»
«Quali schiavi?». Ma Quarath conosceva già la risposta.
«Quelli che sono stati accusati di aver aggredito il chierico femmina, Reverendo Figlio.»
«Avevo dato ordine che quei due dovevano essere venduti o al nano o alle miniere.»
«Barak ha fatto del suo meglio e, in verità, il nano ha fatto delle offerte per loro, ma gli agenti dell’Oscuro le hanno superate. Non c’era niente che Barak potesse fare. Pensa allo scandalo! Inoltre, i suoi agenti li hanno mandati lo stesso alla scuola...»
«Sì,» borbottò Quarath. Così, ogni cosa andava al suo posto. Fistandantilus aveva avuto perfino la temerarietà di comperare il giovanotto, l’assassino! Poi era scomparso. Andato a riferire, senza alcun dubbio. Ma perché mai i maghi si preoccupavano per degli assassini? Fistandantilus avrebbe potuto assassinare personalmente il Gran Sacerdote in innumerevoli occasioni. Quarath ebbe la spiacevole impressione di aver inavvertitamente lasciato un sentiero sgombro per inoltrarsi in una buia e infida foresta.
Rimase seduto, turbato e silenzioso, per tanto di quel tempo che il giovane accolito si schiarì la gola per tre volte, come riguardoso memento della sua presenza, prima che il chierico si accorgesse di lui.
«Avevi un altro compito per me, Reverendo Figlio?»
Quarath annuì in silenzio. «Sì. E questa notizia rende il compito ancora più importante. Desidero che l’intraprenda tu stesso. Io devo parlare al nano.»
L’accolito s’inchinò e se ne andò. Non c’era bisogno di chiedere a chi si riferiva Quarath: c’era un solo nano a Istar.
Nessuno sapeva chi fosse Arack Rockbreaker o da dove venisse. Non faceva mai riferimento al suo passato e di solito si accigliava così rabbiosamente se l’argomento saltava fuori, che i suoi interlocutori si affrettavano ad abbandonarlo. C’erano parecchie interessanti congetture in proposito, la più diffusa era che fosse stato cacciato da Thorbardin, l’antica dimora dei nani delle montagne, dove aveva commesso qualche crimine che gli era costato l’esilio. Nessuno riusciva a immaginarsi che razza di crimine avrebbe potuto essere. E non c’era nessuno che prendesse in considerazione il fatto che i nani non punivano mai nessun crimine con l’esilio. La condanna a morte veniva considerata più umana.
Altre voci insistevano a dire che in realtà si trattava di un dewar, una razza di nani malvagi quasi sterminati dai loro cugini, spinti adesso a vivere un’esistenza amara e miseranda nelle viscere stesse del mondo. Malgrado Arack non avesse l’aspetto né si comportasse nella maniera specifica di un dewar, questa voce era popolare per il fatto che il suo compagno favorito (e il solo) era un orco.
Secondo altre voci Arack non proveniva affatto da Ansalon, ma da qualche altro luogo al di là del mare.
Certamente era l’esemplare più brutto della sua razza che chiunque ricordasse di aver mai visto. Le cicatrici frastagliate che gli attraversavano verticalmente il volto gli davano una perpetua espressione torva. Non c’era grasso, non c’era una sola oncia sprecata sul suo corpo. Si muoveva con la grazia di un felino e, quando stava dritto, piantava i piedi al suolo con tanta fermezza che parevano far parte del terreno medesimo. Qualunque fosse il suo luogo d’origine, Arack aveva fatto di Istar la sua casa ormai da così tanti anni che l’argomento della sua terra di provenienza saltava fuori molto di rado. Lui e l’orco, che si chiamava Raag, provenivano dai Giochi dei vecchi tempi, quand’erano ben più duri e crudeli. Erano diventati subito i grandi favoriti della folla. C’era gente a Istar che raccontava ancora come Raag e Arack avessero sconfitto il poderoso minotauro, Darmoork, in tre riprese. Tutto era cominciato quando Darmoork aveva scagliato il nano fuori dell’arena. Raag, in preda a una rabbia e a un furore ciechi, aveva sollevato da terra il minotauro e, ignorando la gragnola di pugnalate che costui continuava a infliggergli, l’aveva impalato sulla gigantesca Guglia della Libertà al centro del ring.
Anche se né il nano (che era sopravvissuto soltanto perché un chierico si era trovato sulla sua traiettoria quand’era volato sopra l’arena) né l’orco si erano conquistati la libertà quel giorno, non c’era stato nessun dubbio sul vincitore dei Giochi. (In verità c’erano voluti molti giorni prima che qualcuno riuscisse a raggiungere la Chiave d’Oro sulla Guglia, poiché c’era voluto tutto quel tempo per rimuovere i resti del minotauro). Arack riferì i macabri particolari di quel combattimento ai suoi due nuovi schiavi.
«È così che mi sono procurato questa faccia crepata,» disse il nano a Caramon, mentre conduceva l’omone e il kender lungo le strade di Istar. «Ed è così che Raag ed io ci siamo fatti un nome nei Giochi.»
«Quali giochi?» chiese Tas, inciampando sulla sua catena e finendo lungo disteso, con grande divertimento della folla nella piazza del mercato.
Arack si accigliò irritato. «Togligli di dosso quei dannati affari,» ordinò al gigantesco orco dalla pelle gialla che gli faceva da guardia del corpo. «Immagino che tu non scapperai lasciando solo il tuo amico, vero?». Il nano fissò intensamente Tas. «No, non credo proprio. Dicono che già una volta hai avuto la possibilità di scappare e non l’hai fatto. Stai bene attento a non scappare da me!».
Le rughe naturali che solcavano la fronte di Arack si approfondirono. «Non avrei mai comperato un kender, ma non ho avuto molta scelta. Hanno detto che voi due dovevate venir venduti insieme. Ricordati soltanto una cosa: per quanto mi riguarda tu sei inutile. Adesso, che razza di stupida domanda mi stavi facendo?»
«Come farai a togliermi queste catene? Non ti serve una chiave? Oh...» Tas contemplò con deliziato stupore l’orco che afferrava le catene con entrambe le mani e, con un fulmineo strattone, le spezzava.
«Hai visto, Caramon?» chiese Tas mentre l’orco lo agguantava e lo rimetteva in piedi, dandogli una spinta che quasi lo fece cadere un’altra volta per terra. «È davvero forte! Non avevo mai incontrato un orco prima d’oggi. Cosa stavo dicendo? Ah, i giochi... Quali giochi?» «Diamine, i Giochi!» sbottò Arack, esasperato. Tas levò lo sguardo su Caramon, ma l’omone scrollò le spalle e scosse la testa, corrugando la fronte. Era ovvio che si trattava di qualcosa che lì conoscevano tutti. Fare troppe domande sarebbe parso sospetto. Tas frugò nella propria mente, disseppellendo ogni ricordo e ogni storia da lui sentita sugli antichi giorni prima del Cataclisma. D’un tratto trattenne il respiro.
«I Giochi!» esclamò, rivolto a Caramon, dimenticandosi che il nano stava ascoltando. «I Grandi Giochi di Istar! Non te ne ricordi?» Il volto di Caramon divenne cupo.