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La luce del sole era pressoché scomparsa ed il kender stava diventando sempre più ansioso, quando sentì un rumore all’esterno. La porta venne aperta con un violento calcio.

«Caramon!» gridò Tas in preda all’orrore, balzando in piedi.

I due umani corpulenti trascinarono l’omone dentro, sopra il gradino della porta, e lo scaraventarono sul letto. Poi, sogghignando, se ne andarono, sbattendo la porta dietro di sé. Dal letto si levò un gemito sommesso.

«Caramon!» bisbigliò Tas, affrettandosi a prendere la brocca dell’acqua: ne versò un po’ nella scodella e la portò al capezzale del grosso guer-riero. «Cosa ti hanno fatto?» chiese con voce sommessa, inumidendo le labbra del guerriero.

Caramon gemette di nuovo e scosse debolmente la testa. Tas lanciò una rapida occhiata al corpo dell’omone. Non c’era nessuna ferita visibile, nessun gonfiore, nessun livido o segni di frustate.

Eppure era stato tor-turato. Questo era ovvio. L’omone era in preda alla sofferenza. Il suo corpo era coperto di sudore, gli occhi erano girati all’insù. Di tanto in tanto questo o quel muscolo del suo corpo si contraeva spasmodicamente e un gemito di dolore gli sfuggiva dalle labbra.

«Era... era il cavalletto?» chiese Tas, deglutendo nervosamente. «La ruota, forse? Lo schiacciapollici?». Nessuno dei congegni nominati lasciava segni sul corpo, questo almeno aveva sentito dire.

Caramon mugugnò una parola.

«Cosa?» Tas si chinò sopra di lui, bagnandogli il volto con l’acqua. «Cos’hai detto? Calli-calli... cosa? Non ho capito.» La fronte del kender si corrugò. «Non ho mai sentito parlare di una tortura che si chiamasse calli-qualcosa,» borbottò. «Mi chiedo cosa possa essere.»

Caramon lo ripetè, gemendo un’altra volta.

«Calli... calli... callistenici!» esclamò Tas, trionfante. Poi lasciò cade-re la brocca d’acqua sul pavimento. «Callistenici? Non è una tortura!»

Caramon gemette di nuovo.

«Sono esercizi di ginnastica, bambinone!» urlò Tas. «Vuoi dire che ti ho aspettato qui, preoccupato da matti, immaginando ogni genere di cose orribili, e tu eri là fuori a fare gli esercizi?»

Caramon aveva ancora abbastanza forza da sollevarsi dal letto. Allungando una mano enorme agguantò Tas per il colletto della camicia e lo trascinò accanto a sé, fissandolo negli occhi.

«Una volta venni catturato dai goblin,» disse l’omone con un rauco bisbiglio, «i quali mi legarono a un albero e passarono la notte a tormentarmi. Sono stato ferito dai draconici a Xak Tsaroth. I cuccioli di drago mi hanno masticato una gamba nelle segrete della Regina delle Tenebre. E ti giuro che sento più dolore adesso di quanto ne abbia mai sentito in vita mia! Lasciami solo e fammi morire in pace.»

Con un altro gemito, Caramon lasciò cadere la mano, floscia, al suo fianco. Con gli occhi socchiusi, soffocando un sogghigno, Tas tornò strisciando al suo letto.

«Se pensa di sentir male adesso,» rifletté il kender, «che aspetti fino a domani e poi vedrà!»

L’estate a Istar terminò. Arrivò l’autunno, uno dei più belli a memoria d’uomo. L’addestramento di Caramon cominciò, e il guerriero non morì, anche se c’erano momenti in cui pensava che la morte sarebbe stata la soluzione più facile. Anche Tas più di una volta fu tentato di alleviare l’infelicità di quel grosso bambino viziato. Una volta ci aveva provato, durante una notte in cui era stato svegliato da un singhiozzo disperato.

«Caramon?» disse Tas con voce assonnata, rizzandosi a sedere sul letto.

Nessuna risposta. Soltanto un altro singhiozzo.

«Cosa c’è?» aveva chiesto Tas, d’un tratto preoccupato. Era scivolato fuori dal letto e aveva attraversato trotterellando il freddo pavimento di pietra. «Hai fatto un sogno?»

Aveva potuto intravedere Caramon che annuiva alla fioca luce della luna.

«Si trattava di Tika?» aveva chiesto il kender dal cuore tenero, sentendo le lacrime colargli dagli occhi alla vista del dolore dell’omone. «No? Raistlin, allora? No? Te stesso? Tu hai paura...»

«Una focaccina,» aveva farfugliato Caramon. «Oh, Tas! Ho tanta fame! Tantissima... E ho sognato questa focaccina, come quelle che cucinava Tika, tutta coperta di miele appiccicoso e di quelle noccioline croccanti...»

Prendendo una scarpa, Tas gliela aveva scagliata addosso ed era tornato a letto disgustato.

Ma alla fine del secondo mese di quel rigoroso addestramento, Tas ispezionò con lo sguardo Caramon, e dovette ammettere che ciò era esattamente quello di cui l’omone aveva avuto bisogno. I rotoli di grasso intorno alla cintura dell’omone non c’erano più, le cosce flaccide erano di nuovo dure e muscolose, e anche le braccia, il petto e la schiena erano tutto un guizzar di muscoli. I suoi occhi erano luminosi e svegli, l’espressione vacua e opaca era scomparsa. Lo spirito dei nani era stato spremuto fuori col sudore ed espulso dal corpo, il naso di Caramon non era più rosso, e l’espressione rigonfia era scomparsa dalla sua faccia. Il suo corpo aveva assunto un cupo color bronzo per la lunga esposizione al sole. Il nano aveva decretato che i capelli castani di Caramon dovevano essere lasciati crescere belli e lunghi, poiché al momento quel taglio era popolare a Istar, e adesso gli scendevano riccioluti ai lati del viso e lungo la schiena.

Adesso era anche un guerriero dalla superba abilità. Malgrado Caramon fosse stato bene addestrato già in precedenza, allora si era comunque trattato di un addestramento informale, la sua tecnica nell’uso delle armi l’aveva appresa per la maggior parte dalla sua sorellastra più anziana, Kitiara. Ma Arack importava addestratori da ogni parte del mondo, e adesso Caramon stava imparando le tecniche dai migliori.

Non soltanto questo, ma veniva costretto a cavarsela da solo in quotidiani combattimenti fra gli stessi gladiatori. Un tempo orgoglioso delle proprie capacità di lottatore, Caramon aveva provato una profonda vergogna nel ritrovarsi disteso sulla schiena dopo soli due round con quella donna, Kiiri. Il nero, Pheragas, aveva fatto volar via la spada a Caramon dopo una sola stoccata, poi l’aveva colpito alla testa con il proprio scudo, tanto per completare l’opera.

Ma Caramon era un allievo pronto e attento. La sua naturale abilità gli permise d’imparare in fretta, e non passò molto tempo prima che Arack potesse osservare con gioia l’omone che faceva volare in aria Kiiri con facilità, per poi avvolgere con freddezza Pheragas nella sua stessa rete, inchiodando il nero al suolo nell’arena con il suo stesso tridente.

Caramon medesimo era felice più di quanto lo fosse stato da moltissimo tempo. Detestava ancora il collare di ferro, e all’inizio di rado passava una giornata senza desiderare di spezzarlo e scappare.

Ma questi sentimenti si attenuarono a mano a mano che prendeva interesse al suo addestramento. A

Caramon era sempre piaciuta la vita militare. Gli piaceva avere qualcuno che gli dicesse cosa fare, e quando farlo. L’unico vero problema l’aveva con le sue capacità di recitazione.

Sempre aperto e onesto fino all’esagerazione, la parte peggiore dell’addestramento arrivò quando dovette fingere d’essere sconfitto. Avrebbe dovuto gridare forte, fingendo dolore, quando Rolf gli calpestava la schiena. Dovette imparare a crollare a terra come se fosse rimasto orribilmente ferito quando il barbaro si lanciava su di lui con le spade rientranti truccate.

«No! No! No! Grosso tonto!» urlava Arack più e più volte. Un giorno, imprecando contro Caramon, il nano gli si avvicinò e gli sferrò un pugno in piena faccia.

«Arrggh!» gridò Caramon, in preda a un genuino dolore, non osando reagire, con Raag che lo stava guardando, leccandosi le labbra.

«Ecco...» disse Arack, facendosi indietro con espressione trionfante, i pugni serrati, il sangue sulle nocche. «Ricordati quest’urlo. I gonzi lo adoreranno.»

Ma quando si trattava di recitare, Caramon appariva inadeguato. Anche quando urlava, assomigliava più a una «donzella alla quale fosse stato pizzicato il sedere che a qualcuno in punto di morte» come dichiarò Arack con disgusto. E poi, un giorno, il nano ebbe un’idea.