«Chi?... Chi era il suo proprietario?»
Arack esitò, fissando Caramon beffardo, la sua faccia spezzettata si contorse in un sogghigno di scherno. Caramon quasi potè vedergli nella testa, che faceva i suoi calcoli, cercando di valutare quanto ci avrebbe guadagnato a dirlo, e quanto rimanendo zitto. A quanto parve, i soldi si ammucchiarono con più rapidità nella colonna del «dire», perché Arack non esitò a lungo. Facendo segno a Caramon di chinarsi, gli bisbigliò un nome nell’orecchio.
Caramon parve perplesso.
«Un alto chierico, un Reverendo Figlio di Paladine,» aggiunse il nano. «Il numero due dopo il Gran Sacerdote in persona. Ma si è fatto un brutto nemico.» Arack scosse la testa.
Una lontana esplosione di evviva scrosciò sopra di loro. Il nano sollevò lo sguardo, poi lo riportò su Caramon. «Devi salire e fare un inchino al pubblico. Se l’aspettano. Sei un Vincitore.»
«E lui?» chiese Caramon, il suo sguardo andò al Barbaro. «Lui non salirà. Non se ne chiederanno il perché?»
«Un muscolo stirato. Succede spesso. Non può fare l’ultimo inchino,» disse il nano con indifferenza. «Spargeremo la voce che è andato in pensione dopo che gli è stata ridata la libertà.»
Ridata la libertà! Le lacrime gli riempirono gli occhi. Caramon distolse lo sguardo, fissò l’estremità del corridoio. Scoppiò un altro applauso. Doveva andare. Per forza. La tua vita. Le nostre vite. La vita del tuo piccolo amico.
«È per questo,» disse Caramon con voce rauca, «è per questo che me l’hai fatto uccidere! Perché adesso mi hai incastrato. Sai che non parlerò...»
«Lo sapevo comunque,» ribatté Arack, sogghignando con cattiveria. «Diciamo che farlo uccidere da te è stato soltanto un piccolo tocco in più. Ai clienti la cosa piace, dimostra che mi prendo a cuore le cose. Vedi, è stato il tuo padrone a mandare questo avvertimento! Ho pensato che avrebbe apprezzato vederlo eseguire dal suo schiavo. Naturalmente, questo ti mette un po’ in pericolo. La morte del Barbaro dovrà venir vendicata. Ma farà meraviglie per gli affari, una volta che la voce si spargerà.»
«Il mio padrone!» esclamò Caramon a bocca spalancata. «Ma sei stato tu a comperarmi! La scuola...»
«Ah, io ho fatto soltanto da agente,» ridacchiò il nano. «Già, forse non lo sapevi...»
«Ma chi è il mio...». E poi Caramon seppe la risposta. Neppure sentì le parole che il nano disse.
Non riuscì a sentirle sopra il rombo che gli echeggiò all’improvviso nel cervello. Una marea rossosangue lo sommerse, soffocandolo. I polmoni gli facevano male, gli venne voglia di vomitare e si sentì venir meno le gambe. La vertigine passò. Caramon rantolò e sollevò la testa, scuotendosi di dosso la stretta dell’orco.
«Sto bene,» disse attraverso le labbra esangui.
Raag gli lanciò un’occhiata, poi guardò il nano.
«Non possiamo portarlo là fuori in queste condizioni,» disse Arack, guardando Caramon con disgusto. «Non con l’aspetto di un pesce a pancia in su. Portalo nella sua stanza.»
«No,» disse una vocina dall’oscurità. «Mi... mi occuperò io di lui.»
Tas strisciò fuori dall’ombra, il volto pallido almeno quanto quello di Caramon.
Arack esitò, poi ringhiò qualcosa e facendo un gesto all’orco si allontanò, salendo frettolosamente le scale per consegnare i premi ai vincitori.
Tasslehoff s’inginocchiò accanto a Caramon, con la mano sul braccio dell’omone. Lo sguardo del kender andò al cadavere che giaceva dimenticato sul pavimento di pietra. Anche lo sguardo di Caramon andò nella stessa direzione. Vedendo il dolore e l’angoscia nei suoi occhi, Tas sentì un nodo alla gola. Non riuscì a dire una parola, ma soltanto a battere una mano sul braccio di Caramon.
«Quanto hai sentito?» chiese Caramon con voce roca.
«Quel che basta,» rispose Tas con un filo di voce. «Fistandantilus.»
«Ha progettato tutto questo sin dall’inizio.» Caramon sospirò e reclinò la testa all’indietro, chiudendo stancamente gli occhi. «E così che si sbarazzerà di noi. E non dovrà neppure farlo lui stesso. Lascerà che questo... questo chierico...»
«Quarath.»
«Già, lascerà che questo Quarath ci ammazzi.» Caramon strinse i pugni. «Le mani dello stregone saranno pulite! Raistlin non sospetterà mai niente. E d’ora in avanti, tutte le volte che ci sarà un combattimento, mi chiederò: sarà vero quel pugnale che Kiiri impugna?». Riaprendo gli occhi, Caramon guardò il kender. «E tu, Tas, anche tu ci sei dentro. Il nano l’ha detto chiaramente. Però... io non posso andarmene, ma tu sì! Devi lasciare questo posto!»
«E dove mai potrei andare?» replicò Tas, disperato. «Mi ritroverebbe, Caramon. È il più potente fruitore di magia che sia mai vissuto. Neppure i kender possono nascondersi da gente come lui.»
Per qualche istante, i due rimasero seduti insieme in silenzio, con il ruggito della folla che continuava ad echeggiare sopra di loro. Poi, lo sguardo di Tas colse un luccichio metallico sull’altro lato del corridoio. Riconoscendo l’oggetto, si alzò in piedi e andò a recuperarlo.
«Posso farti entrare nel Tempio insieme a me,» disse, tirando un profondo respiro e cercando di mantenere ferma la voce. Raccolse dal pavimento il pugnale macchiato di sangue, lo portò indietro e lo porse a Caramon.
«Posso farlo stanotte.».
Capitolo ottavo.
La luna d’argento, Solinari, occhieggiò all’orizzonte. Levandosi al di sopra della torre centrale del l’empio del Gran Sacerdote, la luna sembrava la fiamma d’una candela che bruciasse su un lucignolo alto e scanalato. Quella notte Solinari era piena e luminosa, talmente luminosa che i servizi dei portaluce stradali non erano richiesti e i ragazzi che si guadagnavano da vivere illuminando con le loro bizzarre lampade d’argento la strada ai festaioli che andavano da una casa all’altra, passavano le ore notturne a casa, maledicendo la sfolgorante luce della luna che li derubava dei loro guadagni.
La gemella di Solinari, la rossosangue Lunitari, non era sorta, né sarebbe sorta per parecchie ore ancora, inondando le strade con il suo arcano splendore purpureo. In quanto alla terza luna, quella nera, la sua oscura rotondità in mezzo alle stelle venne notata da un uomo che la guardò per un breve istante, mentre si spogliava delle sue vesti nere, appesantita dai componenti degli incantesimi, indossando la più semplice e morigerata vestaglia nera da camera. Calandosi il cappuccio nero sopra la testa per escludere la luce fredda e penetrante di Solinari, si distese sul letto e scivolò nel sonno tranquillo così necessario a lui e alla sua Arte.
Per lo meno, era ciò che Caramon immaginò stesse facendo, mentre lui e il kender percorrevano le strade affollate illuminate dalla luce della luna. La notte era animata dai divertimenti. Passarono accanto a un gruppo dopo l’altro di gaudenti, comitive di uomini che ridevano sfrenatamente e discutevano dei Giochi; e comitive di donne che restavano in gruppo pur lanciando timide occhiate a Caramon con la coda dell’occhio. I loro indumenti sottili sbattevano intorno ai corpi alla morbida brezza, che era mite per essere autunno inoltrato. Un gruppo di queste donne riconobbe Caramon e il grosso guerriero si mise quasi a correre temendo che chiamassero le guardie per farlo ricondurre nell’arena.
Ma Tas, più esperto nelle cose del mondo, lo trattenne da gesti inconsulti. Il gruppo di donne contemplava Caramon con sguardo incantato. L’avevano visto combattere nell’arena quel pomeriggio, e si era già conquistato il loro cuore. Gli fecero banali domande sui Giochi, poi non ascoltarono le sue risposte, il che era comunque lo stesso. Caramon, infatti, era talmente nervoso che le sue risposte avevano pochissimo senso. Alla fine le donne se ne andarono ridendo per la loro strada, dopo avergli augurato buona fortuna. Caramon lanciò un’occhiata al kender, interrogandosi su tutto questo, ma Tas si limitò a scuotere la testa.
«Perché mai pensi che ti abbia fatto vestire?» il kender chiese a Caramon poco dopo.