E infatti Caramon si era interrogato proprio su questo punto. Tas aveva insistito perché indossasse il mantello di seta dorata che portava nell’arena, oltre all’elmo che aveva inalberato quel pomeriggio. Tutto ciò non pareva affatto adatto a entrare di nascosto nel Tempio: Caramon si era immaginato di dover strisciare attraverso le fogne o arrampicarsi sui tetti. Ma quando si era mostrato recalcitrante, gli occhi di Tas erano divenuti freddi. O Caramon faceva come lui gli aveva detto, oppure poteva dimenticarsene, gli aveva sbattuto in faccia, secco.
Sospirando, Caramon si era vestito come gli era stato ordinato, indossando il mantello sopra la camicia floscia e le brache di cuoio che portava di solito. Si era infilato alla cintura il pugnale macchiato di sangue. Istintivamente aveva cominciato a pulirlo, poi aveva smesso. No, sarebbe stato meglio lasciarlo così.
Era stato semplice per il kender aprire loro la porta dopo che Raag li aveva chiusi sotto chiave per la notte, e i due erano sgusciati attraverso il dormitorio dei gladiatori senza incidenti; la maggior parte dei guerrieri era addormentata o, nel caso dei minotauri, ubriachi fradici.
I due si erano incamminati per le strade senza cercare di nascondersi, con grande disagio di Caramon. Ma il kender appariva imperturbato. Insolitamente imbronciato e silenzioso, Tas continuava a ignorare le ripetute domande di Caramon. Ormai, erano vicinissimi al Tempio, il quale si stagliava davanti a loro in tutta la sua argentea e perlacea radiosità, e Caramon finì per fermarsi.
«Aspetta un momento, Tas,» disse a bassa voce, tirando il kender in un angolo in ombra, «come pensi di farci entrare là dentro?»
«Attraverso la porta principale,» rispose Tas, con calma.
«La porta principale?» ripetè Caramon, stupefatto. «Sei matto? Le guardie ci fermeranno...».
«È un tempio, Caramon,» replicò Tas con un sospiro. «Un tempio agli dei. Le creature malvagie semplicemente non entrano.»
«Fistandantilus entra,» ribatté Caramon, in tono burbero.
«Ma soltanto perché il Gran Sacerdote lo permette,» replicò Tas, scrollando le spalle. «Altrimenti non potrebbe entrare là dentro. Gli dei non lo permetterebbero. Per lo meno, questo mi ha detto uno dei chierici quando gliel’ho chiesto.»
Caramon corrugò la fronte. Il pugnale che aveva alla cintura gli parve all’improvviso pesante, il metallo gli premeva rovente contro la pelle. Era soltanto la sua immaginazione, si disse. Dopotutto, non era la prima volta che portava su di sé dei pugnali. Infilando una mano sotto il mantello, lo toccò per rassicurarsi. Poi, stringendo con forza le labbra, si avviò in direzione del Tempio. Dopo un attimo di esitazione, Tas lo raggiunse.
«Caramon,» disse il kender con una vocina sottile, «credo di sapere quello che stavi pensando. Io ho pensato la stessa cosa... E se per caso gli dei impedissero a noi di entrare?»
«Siamo venuti per distruggere il Male,» disse Caramon con voce tranquilla, la mano sul pugnale.
«Ci aiuteranno, non ci ostacoleranno. Vedrai.»
«Ma, Caramon...». Adesso era Tas a fare domande e Caramon, cupo in volto, a ignorarle. Alla fine raggiunsero la splendida gradinata che < conduceva al Tempio.
Caramon si arrestò, fissando l’edificio. Sette torri svettavano alte nel cielo, come una lode perenne agli dei per la loro creazione. Ma ce n’era una che si elevava a spirale al di sopra di tutte le altre.
Luccicando al bagliore di Solinari, pareva che non lodasse gli dei, ma piuttosto che volesse rivaleggiare con loro. La bellezza del Tempio, i suoi marmi rosati e perlacei che mandavano morbidi riflessi alla luce della luna, le sue pozze d’acqua immobile che riflettevano le stelle, i suoi ampi giardini costellati di fiori meravigliosi e fragranti, le sue decorazioni d’oro e d’argento... tutto questo lasciò Caramon senza fiato, trafiggendogli il cuore. Non riusciva a muoversi, era rimasto là come pietrificato da quello splendore.
lì poi, nei recessi della sua mente, come se fosse stata in agguato, fece cupolino una sensazione di orrore. Lui aveva già visto tutto questo! soltanto che l’aveva visto in un incubo: le torri contorte e deformi... confuso, chiuse gli occhi. Dove? Come? Poi, gli ritornò alla memoria. Il Tempio di Neraka dov’era stato imprigionato! Il Tempio della Regina delle Tenebre! Era stato proprio quello stesso Tempio, pervertito, corrotto e trasformato in una cosa orrenda dalla sua malvagità. Caramon tremò. Sopraffatto da quel terribile ricordo, chiedendosi cosa mai presagisse, per un attimo pensò di voltarsi e scappare.
Poi sentì Tas che lo tirava per il braccio. «Vai avanti!» gli ordinò il kender. «Così, desti sospetti!»
Caramon scosse la testa sgombrandola da quegli stupidi ricordi che non significavano nulla, come si disse. I due si avvicinarono alle guardie accanto alla porta.
«Tas!» disse Caramon all’improvviso, afferrando il kender per la spalla e stringendogliela con tanta forza da farlo squittire per il dolore. «Tas, questa è una prova! Se gli dei ci lasceranno entrare, saprò che stiamo facendo la cosa giusta! Avremo la loro benedizione!»
Tas non rispose subito. «È questo che pensi?» chiese poi, esitante.
«Naturalmente!». Gli occhi di Caramon luccicarono al vivido chiarore di Solinari. «Vedrai. Vieni.»
L’omone, recuperata la fiducia in se stesso, salì a grandi passi la gradinata. Caramon costituiva uno spettacolo imponente, con il mantello di seta dorata che gli svolazzava intorno e l’elmo dorato che sfavillava alla luce della luna. Le sentinelle smisero di parlare tra loro e si voltarono a guardarlo.
Una dette di gomito all’altra e gli! disse qualcosa, facendo un rapido movimento che mimava una pugnalata. Il suo compagno sogghignò e scosse la testa, fissando Caramon con ammirazione.
Caramon seppe subito cosa significava quella pantomima, e quasi si fermò, sentendo una volta ancora il sangue caldo schizzargli sulla mano... e le ultime parole soffocate del Barbaro. Ma era arrivato troppo oltre, ormai, per tornare indietro. E forse, si disse, quello era un segno. Lo spirito del Barbaro che si attardava lì accanto, bramoso di vendetta.
Ansioso, Tas levò lo sguardo su di lui. «Sarà meglio che lasci parlare me,» bisbigliò il kender.
Caramon annuì, deglutendo innervosito.
«Salute, gladiatore,» lo chiamò una delle guardie. «Sei nuovo ai Giochi, non è vero? Stavo dicendo al mio compagno che oggi si è perso un bel combattimento. E non soltanto questo, ma gli hai anche fatto guadagnare sei pezzi d’argento. Com’è che ti chiamano?»
«È il “Vincitore”,» interloquì, garrulo, Tas. «E oggi è stato soltanto l’inizio. Non è mai stato sconfitto in battaglia, e mai lo sarà.» «E tu chi sei, piccolo tagliaborse? Il suo agente?» La frase fu accolta con una fragorosa risata dall’altra guardia, a cui Caramon fece eco con una risata nervosa e stridula. Poi il grosso guerriero abbassò lo sguardo su Tas e seppe subito che erano nei guai! Tas si era sbiancato in viso. Tagliaborse! L’insulto più orribile, la cosa peggiore al mondo che si potesse dire ad un kender! La grossa mano di Caramon si serrò sopra la bocca di Tas.
«Sicuro,» annuì Caramon, tenendo ben stretto il kender che si dibatteva. «Ed è anche molto in gamba.»
«Be’, tienilo d’occhio,» aggiunse l’altra guardia, ridendo ancora di più. «Vogliamo vedere che tagli gole, non borse!»
Gli orecchi di Tasslehoff, l’unica parte della sua testa visibile sopra l’ampia mano di Caramon, divennero scarlatte. Suoni incoerenti giungevano da dietro il palmo di Caramon. «Cre... credo che faremo meglio a entrare,» balbettò il grosso guerriero, chiedendosi per quanto tempo sarebbe riuscito a trattenere Tas. «Siamo in ritardo.»
Le guardie si scambiarono un’occhiata, con l’aria di chi la sapeva lunga, e gli strizzarono l’occhio.
Una delle due scosse la testa con invidia. «Ho visto le donne che ti guardavano, oggi,» disse, volgendo lo sguardo alle ampie spalle di Caramon. «Avrei dovuto immaginare che saresti stato invitato qui per... uhm... cena.»
Di che cosa mai stavano parlando? L’espressione perplessa di Caramon indusse le guardie a scoppiare in un’altra risata.