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«In nome degli dei!» sbottò una delle due. «Ma guardalo, è proprio nuovo!»

«Vai pure.» L’altra guardia gli fece cenno di passare. «Buon appetito!»

Altre risate. Arrossendo, non sapendo cosa dire e sempre cercando di tenere stretto Tas, Caramon entrò nel Tempio. Ma, mentre procedeva, udì le guardie che si scambiavano battute volgari, le quali gli fecero capire all’improvviso e con chiarezza quello che intendevano dire. Trascinando il kender, che non la smetteva di dibattersi, lungo un corridoio, svoltò di corsa al primo angolo.

Non aveva la più pallida idea di dove si trovava.

Lasciò andare Tas una volta che le guardie furono scomparse alla vista e fuori portata dalle loro voci. Il kender era pallido e stralunato.

«Quei... quei... io... se ne pentiranno...»

«Tas!» Caramon lo scosse. «Piantala. Calmati. Ricordati perché siamo qui.»

«Tagliaborse! Come se fossi un comune ladro!». Tas aveva praticamente la schiuma alla bocca.

«Io...»

Caramon lo fissò inferocito e il kender soffocò le sue proteste. Recuperando il controllo di sé, tirò un profondo respiro, e poi fece uscire lentamente l’aria dai polmoni. «Adesso sto bene,» disse, imbronciato. ti ho detto che sto bene!» sbottò, quando vide che Caramon lo stava ancora guardando dubbioso.

«Oh, insomma, siamo entrati, anche se non esattamente come mi aspettavo,» bofonchiò Caramon.

«Hai sentito quello che dicevano?»

«No... non dopo “ta... taglia..., dopo quella parola. Con la tua mano mi hai schiacciato anche buona parte degli orecchi,» replicò Tas con tono di accusa.

«Pare... pare che le signore... invitino gli uo... uomini qui dentro pe... per... sai cosa...»

«Ascolta, Caramon,» ribatté Tas, esasperato. «Hai avuto il tuo segno. ti hanno fatto entrare. È probabile che ti stessero soltanto prendendo in giro. Tu sei troppo credulone! Crederesti a qualunque cosa, Tika lo dice sempre.»

Un ricordo di Tika balenò nella mente di Caramon. Potè quasi sentirla che diceva quelle precise parole, ridendo. Ebbe l’impressione che la lama di un coltello gli tagliasse la pelle. Fissando Tas con furore, respinse subito quel ricordo.

«Già,» disse in tono amaro, arrossendo. «Probabilmente hai ragione, si stavano divertendo alle mie spalle. E io ci sono anche cascato! Ma...» sollevò la testa e per la prima volta contemplò intorno a sé la grandezza del Tempio. Cominciò a rendersi conto di dove si trovava: quel luogo sacro, quel palazzo degli dei. Ancora una volta sentì la reverenza e il timore che aveva provato nel guardarlo dall’esterno, illuminato dalla luce radiosa di Solinari. «Hai ragione, gli dei ci hanno dato il nostro segno!»

C’era un corridoio nel Tempio in cui pochi andavano e nessuno, di quelli che lo facevano, ci andava volontariamente. Se erano costretti a recarsi fin là per qualche incarico, svolgevano in fretta il loro compito e ; se ne andavano quanto più rapidamente possibile.

Non c’era niente di sbagliato nel corridoio in sé. Era splendido tanto quanto gli altri corridoi e le altre sale del Tempio. Meravigliosi arazzi realizzati ] in colori tenui davano grazia alle sue pareti, morbidi tappeti coprivano il pavimento di marmo, deliziose statue riempivano le alcove I immerse nell’ombra. Porte di legno decorate da sculture si aprivano su di esso, conducendo a stanze piacevolmente adorne come ogni altra stanza del Tempio. Ma quelle porte non si aprivano più.

Erano tutte chiuse a chiave. Tutte le stanze erano vuote. Tutte, tranne una.

Quella stanza si trovava proprio all’estremità del corridoio, che era! buia e silenziosa perfino durante il giorno. Era come se l’occupante di quella singola stanza proiettasse una cappa plumbea sul pavimento stesso dove camminava, nell’aria stessa che respirava. Quelli che entravano in quel corridoio si lamentavano dicendo che’ si sentivano soffocare. Annaspavano come qualcuno che stesse morendo dentro una casa in fiamme.

Quella era la stanza di Fistandantilus. Era sua da anni, da quando il Gran Sacerdote era salito al potere cacciando via i fruitori di magia dalla loro Torre di Palanthas, la Torre in cui Fistandantilus aveva regnato come capo del Conclave.

Che accordo avevano mai concluso le forze trainanti del Bene, e quelle del Male nel mondo? Quale intesa era stata raggiunta per consentire all’Oscuro di vivere all’interno del luogo più bello e più sacro di Krynn? Nessuno lo sapeva, molti facevano le più svariate ipotesi. Molti credevano che fosse per grazia del Gran Sacerdote, un gesto nobile nei confronti di un nemico sconfitto.

Ma perfino lui, perfino il Gran Sacerdote, non percorreva quel corridoio. Almeno in quel luogo, il grande mago regnava nel buio e con terrificante supremazia.

All’estremità opposta del corridoio si apriva un’alta finestra. Pesanti tende di velluto erano tirate sopra di essa, escludendo la luce del sole, durante il giorno, ed i raggi della luna, nelle ore notturne.

Ma quella notte, forse perché i servi erano stati incitati dal Capo della Servitù a pulire ed a raccogliere la polvere dal corridoio, le tende erano lievemente scostate, lasciando che la luce argentea di Solinari risplendesse nel corridoio cupo e vuoto. I raggi della luna che i nani chiamavano Candela della Notte, penetravano l’oscurità come una lunga lama sottile di lucido acciaio.

forse come il dito bianco e sottile di un cadavere, pensò Caramon, lasciando scorrere il suo sguardo lungo quel silenzioso corridoio. attraversando il vetro, quel dito di luce lunare percorreva il pavimento coperto dal tappeto per tutta la sua lunghezza, arrivando a sfiorargli i piedi, là dove si trovava.

«Quella è la sua porta,» disse il kender, con un sussurro talmente sommesso che Caramon riuscì appena a sentirlo sopra il battito del proprio cuore. «Sulla sinistra.»

Caramon infilò ancora una volta la mano sotto il mantello, cercando l’elsa del pugnale, la sua rassicurante presenza. Ma l’impugnatura era fredda. Caramon rabbrividì quando la toccò e si affrettò a ritrarre la mano.

Pareva una cosa tanto semplice percorrere quel corridoio. Eppure non riusciva a muoversi. Forse era l’enormità di quello che aveva in mente di fare: prendere la vita di un uomo, non in battaglia ma mentre dormiva. puccidere un uomo nel sonno, di tutti i momenti quello in cui siamo più indifesi, quando ci affidiamo alla mano degli dei. Poteva esserci un crimine più orrendo, più codardo?

Gli dei mi hanno dato un segno, si ricordò Caramon, e con durezza si costrinse anche a ricordarsi del Barbaro morente. Si costrinse a ricordare i tormenti di suo fratello nella Torre. Ricordò quant’era potente quel mago malvagio quand’era sveglio. Caramon tirò un profondo respiro e afferrò con decisione l’elsa del pugnale. Stringendola con forza, anche se non estrasse l’arma dalla cintura, prese ad avanzare lungo il corridoio silenzioso. Adesso pareva che la luce della luna lo chiamasse.

Sentì una presenza alle sue spalle, così vicina che, quando si fermò, Tas andò a sbattergli contro.

«Rimani qui,» gli ordinò Caramon.

«No...» cominciò a protestare Tas, ma Caramon lo zittì.

«Devi farlo. Qualcuno deve fare la guardia a questa estremità del corridoio. Se dovesse venir qualcuno, fai un rumore, qualcosa, insomma.»

«Ma...»

Caramon abbassò lo sguardo sul kender. Alla vista dell’espressione truce e dello sguardo freddo e privo di emozioni dell’omone, Tas deglutì e annuì. «Be’... resterò qui, in quell’ombra.» Gli indicò il punto e sgusciò via.

Caramon aspettò fino a quando fu sicuro che Tas non l’avrebbe «accidentalmente» seguito. Ma il kender si rannicchiò miserevolmente all’ombra d’un enorme albero rimasto piantato in un vaso dopo che era morto mesi prima. Caramon si voltò e proseguì.

Ai piedi del fusto rinsecchito dell’albero, le cui foglie frusciavano ad ogni suo minimo movimento, Tas seguì con lo sguardo Caramon che avanzava lungo il corridoio. Vide l’omone raggiungerne l’estremità, allungare una mano e afferrare la maniglia della porta. Vide Caramon dare una leggera spinta. La porta cedette alla sua pressione e si aprì in silenzio. L’omone scomparve all’interno della stanza.